Una delle più brutte leggi elettorali di sempre, quel Rosatellum ad excludendum che serviva per non far vincere i 5s, consente alle segreterie dei partiti di divertirsi con un bel tetris di incastri. E così ci è toccato seguire l’imbarazzante tassonomia dei collegi: blindati, sicuri, non sicuri, gladiatorî, suicidi, pacca sulla spalla, lèvati dai piedi. Tutti hanno fatto a gara per piazzarsi nei primi e nei secondi, qualcuno ha accettato obtorto collo i terzi (Monica Cirinnà, pronta a sfoderare una inusitata metafora intrisa di mascolinità tossica), negli altri ci vanno i peones che si dichiarano “a disposizione del partito”, modo elegante per dire che loro lì a fare una figuraccia ci vanno, certo, ma poi passeranno dalla segretaria per il gettone.

Naturalmente un capitolo a parte meriterebbero gli stracci che volano nel sedicente centrosinistra sulla paternità di quella legge. Qualche giorno fa Maria Elena Boschi ha smentito Enrico Letta: non è vero che Renzi mise la fiducia sull’orrido Rosatellum, la mise sull’Italicum. La sventurata non si rende conto che l’Italicum era perfino peggiore, e anche incostituzionale? E ci ricorda che la fiducia sul Rosatellum la mise Gentiloni (voluto da Renzi dopo le sue dimissioni) e votata dal partito di Renzi Gentiloni Boschi e Letta di concerto con Salvini e Berlusconi. Situazionismo politico puro.

Col Rosatellum, peraltro, ci ritroveremo fra un po’ al turismo elettorale: ai maggiorenti toccheranno i collegi più belli, quelli dove andare a passare un mesetto di campagna elettorale in vacanza. Scenderanno in un bell’albergo, si faranno qualche selfie, diranno qualcosa di generico e improvvisato sulle problematiche del territorio. Faranno visita alle attività produttive salienti e se ne dichiareranno estimatori: entrando, il candidato, rivolto all’ascaro locale procuratogli dalle strutture territoriali del partito tra i militanti desiderosi di comparire sui social del big cui sono assegnati, gli chiederà “cos’è che producono qui?”. Poi gli inviti a cena, i pranzi di lavoro, ma non potrà mancare un po’ di relax in qualche spa per ritemprarsi dalle fatiche di un tale tour de force. E a mai più rivedersi.

Immagino già i commenti in transatlantico dopo le urne: “A Palermo ho preso due chili!”, e l’altro, di rimando: “Non me ne parlare, quella ribollita è deliziosa, ma la prossima volta voglio il collegio di Bari: ci pensi che non ho mai assaggiato la tiella?!”.

Il pensiero corre a Giacomo Matteotti, parlamentare del Polesine, che Gobetti chiamò “il nemico delle sagre” perché rifuggiva da quel modo di fare politica che consisteva di compiti demagogici e incontri al caffè per accettare raccomandazioni: eppure la domenica andava a far visita ai contadini del collegio, e – suscitando qualche malumore – parlava più volentieri nella provincia che in città.

Oggi siamo al parossismo verticistico delle candidature calate dall’alto e salutate dai beneficiati come sinecure. Paradigmatica l’esperienza Boschi, che “scoppiò da Scilla al Tanai” e dopo Bolzano si ritrova in Calabria. Tutto per evitare Arezzo. Si dirà: altra tempra, altri tempi.

Ma anche lo Statuto Albertino (art. 41), come la Costituzione repubblicana (art. 67), prevedeva che i deputati (i senatori essendo di nomina regia) rappresentassero la Nazione senza vincolo di mandato. Già, il vincolo di mandato, un tema caro ai 5s, i quali invece prevedono che i candidati siano residenti nel territorio per il quale si presentano, a meno che non abbiano il centro dei loro interessi in un altro collegio. Perché tra il vincolo di mandato, su cui qui non possiamo dilungarci, e un rapporto decente tra eletto ed elettori, c’è comunque una bella differenza.

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