Hikikomori è un termine giapponese che deriva dalla fusione dei verbi hiku e komoru e significa: “ritirarsi e stare in disparte”. Identifica chi decide di isolarsi, recidendo i contatti con l’ambiente esterno, in conseguenza a forme di malessere sociale che nel tempo, unitamente alle conseguenze della solitudine, possono sfociare in vere e proprie condizioni di sofferenza psicopatologica. In Giappone questo fenomeno è esploso negli ultimi due decenni e interessa oggi oltre un milione di giovani di età compresa fra i 14 e i 30 anni.

Alla base ci sono spesso il senso di vergogna e la paura del giudizio altrui. Entrambi risultato di un contesto basato su competizione estrema, pressione sociale, “doveri morali” di rispondere a modelli e aspettative che la società scarica sull’individuo, generando senso di inadeguatezza e paura di fallire.

In Italia si parla poco e male di Hikikomori. Eppure, condizioni di sofferenza sociale con tratti comuni toccano fette sempre più ampie di giovani e giovanissimi. Pessimismo e critica nei confronti della società, uniti alla convinzione di non trovare comprensione nel proprio contesto familiare e amicale e alla sfiducia nel futuro e nei propri mezzi, comportano una perdita di interesse nelle relazioni sociali. Siamo di fronte a un fenomeno di difficile inquadramento ma sbaglieremmo a “patologizzare” un disagio che, a volte, si risolve con i naturali passaggi d’età, ma che in altri casi viene rimandato a diagnosi “parziali”: disturbi depressivi, d’ansia e di ritiro sociale, dipendenze da internet, social e videogiochi.

I dati del Dipartimento per le politiche antidroga della presidenza del Consiglio dei ministri (già il fatto che se ne occupino loro la dice lunga) sulla popolazione studentesca fra i 15 e i 19 anni, dicono che uno studente su cinque si è isolato per un tempo significativamente lungo nella sua vita. A prescindere da lockdown e Covid-19. Dati, tra l’altro, probabilmente sottostimati visto che, tra chi si ritira dalla società, è comune anche l’abbandono scolastico.

Quanto hanno influito pandemia e lockdown?

I lunghi periodi di distanziamento sociale, la Dad che ha precluso uno spazio di socializzazione e confronto sociale indispensabile, hanno inciso in profondità sulla nostra psiche. Anche una volta finite le modalità più dure di lockdown la società si è trasformata in senso più respingente e le occasioni di aggregazione, soprattutto per i più giovani, si sono ridotte e sono state rese più complesse da regolamenti che, anche finite le esigenze sanitarie, limitano ancora in molti comuni, ad esempio, il consumo all’aperto di una semplice birra.

Scegliere di ritirarsi non è necessariamente sintomo di un disagio mentale, anche se una maggiore vulnerabilità comporta più probabilità di scivolare dalla sindrome di Hikikomori a forme di conclamata sofferenza psichica. Non è un caso che stiano aumentando i contatti con i servizi di salute mentale e il rischio di suicidi rappresenta la quinta causa di morte tra i giovani.

Due parole sul “Bonus Psicologo”

Quali strumenti ha messo in campo il governo per affrontare il crescente disagio mentale? Se volessimo essere tranchant potremmo rispondere: “nessuno”. Tutti i politici sostengono di “ascoltare” le richieste, soprattutto quelle dei più giovani, ma non arrivano mai a soluzioni strutturali. Il “Bonus Psicologo” – spacciato per misura rivoluzionaria, così come impostato è una “goccia nel mare”: basti pensare che sono state accantonate 113.343 domande solo nelle prime 48 ore e che i dieci milioni stanziati dal governo bastano a garantire solo il minimo (200 euro) alla metà degli aventi diritto.

Non ci sono filtri sulle richieste né controllo sugli psicologi convenzionati. Chi non ha accesso a un pc, non può provvedere da sé a una richiesta di aiuto o non ha fatto in tempo a mettersi in attesa è escluso dal bonus, di cui non sono nemmeno chiari i tempi di erogazione e le modalità di proseguimento dei percorsi avviati. Tutto questo rinforza un approccio “patologizzante” e superficiale al tema.

Servono più risorse economiche e più assunzioni per i servizi di salute mentale, ma non basta. Le risorse dovrebbero già esserci, perché la conferenza dei presidenti delle regioni del 18 gennaio 2001 decise che l’Italia avrebbe dovuto stanziare almeno il 5% del fondo sanitario nazionale per la salute mentale. Invece siamo sotto al 3%, con regioni come la Campania che arrivano appena al 2,1% (dato del 2019).

In un Paese in cui il consumo di ansiolitici è aumentato dell’8% nel solo 2021, serve riscoprire la dimensione collettiva del disagio mentale e non patologizzarlo a tutti i costi. Investire nella sanità pubblica è fondamentale ma non basta. Patologizzare a tutti i costi il disagio esistenziale o qualsiasi forma di breakdown psichico, specie nel caso in cui sono condizioni di sofferenza sociale a comportarla (disoccupazione, difficoltà lavorative ed economiche, ecc.), non farebbe altro che spostare sulla ricerca individualizzata, palliativa e “stigmatizzante” di una soluzione, che ha bisogno di una dimensione politica e sociale e non strettamente medica.

Articolo Precedente

Quando le raccolte fondi riempiono i vuoti del welfare: tre storie di speranza su GoFundMe

next
Articolo Successivo

Bolzano capitale culturale: alla rassegna Transart proposte innovative radicali

next