Talvolta più dei depistaggi pessime indagini possono sviare la verità sulle stragi (che poi le due cose non si escludono). Nel caso di quella dei Georgofili: notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, Galleria degli Uffizi di Firenze, esplode un’autobomba collocata un veicolo commerciale Fiat Fiorino, di colore bianco, l’ingarbugliamento degli elementi di prova è stato letale, a giudicare dal lavoro istruttorio condotto dal II Comitato della Commissione Antimafia guidata da Nicola Morra, lavoro al quale si è molto dedicato il senatore Piero Grasso. Il Comitato (presieduto da Mario Giarrusso) è andato a riascoltare i mafiosi Gaspare Spatuzza, Vincenzo Ferro, Giuseppe Ferro, Cosimo Lo Nigro, tutti certamente implicati nell’attentato, e poi il sostituto commissario della polizia di Stato Carlo Benelli, un abile e fedele funzionario dello Stato, l’avvocato Danilo Ammannato, storico legale delle vittime, e l’esperto di esplosivi Gianni Giulio Vadalà, già perito del Pm di Firenze, professionista molto stimato.

Sulla base delle loro dichiarazioni e di qualche nuovo documento la Commissione ha elaborato una relazione approvata, tra le altre relazioni (sono 12, tante, per alcuni troppe e frammentarie), nella giornata di ieri ridefinendo il quadro delle responsabilità dell’atto terroristico che ha colpito Firenze nella “stagione della destabilizzazione”, cioè tra il 1992 (stragi di Capaci e di via D’Amelio) e il 1994 (strage di via dei Gladiatori, meglio nota come strage dell’Olimpico), arco di tempo nel quale vennero inscenati anche due fantomatici tentativi di golpe (Saxa Rubra e Lady Golpe di recente richiamato su questo giornale) e una anomala agenzia terroristica, la Falange armata, terrorizzava palazzi e piazze con le sue rivendicazioni degli attenti.

Le responsabilità mafiose della strage dei Georgofili non vengono toccate da questo lavoro istruttorio ma ‘integrate’, diremmo, con nuovi elementi. Per farla semplice, ma semplice non è, vi descriviamo la dinamica secondo l’Antimafia: i ‘picciotti’ mafiosi portano un certo quantitativo di tritolo (solo tritolo) presso la base operativa di Prato, lì confezionano tutto e preparano l’automobile imbottita che, secondo le sentenze, sarà portata sotto la Torre dei Pulci dal mafioso Cosimo Lo Nigro. Qui c’è il primo consistente inciampo delle vecchie indagini: perché venne ignorato il signor Vincenzo Barreca, portiere del condominio di Via Dei Bardi 56/58, proprio di fronte al luogo cruciale dell’attentato, il quale, benché spontaneamente andò a raccontare quanto vide dalla sua finestra del primo piano, non fu degnato di adeguata attenzione. Nella notte della strage, poco prima della mezzanotte, il portiere Barreca sente una discussione “abbastanza animata” tra due uomini sul marciapiede proprio di fronte le sue finestre. Poi vede sopraggiungere un’auto di colore grigio metallizzato, il numero di targa iniziava con le lettere RO, che si ferma all’altezza dei due; si trattava di una Mercedes, testualmente nel verbale “forse Mercedes”, comunque dal “musetto basso” ed una mascherina con supporti verticali. E qui la testimonianza si fa molto intrigante: egli vide scendere dall’auto una giovane donna con capelli neri, corti e lisci e “vestita come una hostess”.

Eccoci di nuovo alla presenza femminile in una strage di mafia: come può entrarci una donna? Ebbene c’entra se la Commissione ha riesumato un identikit realizzato dalla Polizia – mai reso pubblico dagli inquirenti e dalla Procura di Firenze – raffigurante il volto di una giovane donna con i capelli a caschetto vista quella notte in via dei Bardi dal portiere che rimase a gustarsi la scena ignaro di quel che stava per accadere. Ricorda con esattezza Barreca che la donna arrivo “alle ore 24.10, sono sicuro dell’ora perché portavo l’orologio”, disse già nell’interrogatorio del ’93 dimenticato poi nei cassetti, “è arrivata una macchina grigia metallizzata, di grosse dimensioni, con 4 fari, 4 sportelli, che poi ho riconosciuto per una Mercedes, seguita da un veicolo furgonato di colore bianco. La Mercedes si è fermata davanti al portone dove si trovavano i due descritti sopra e ne è scesa, dal posto del passeggero, una donna, di aspetto giovanile, dall’apparente età di 25/30 anni, alta circa m. 1.70, indossante un vestito blu con gonna e giacchetta che mi ha ricordato quelli in uso alle hostess e scarpe con i tacchi, mora con capelli corti, un po’ tirati indietro, con viso piccolo, molto carina. Preciso che l’altezza deve essere sicuramente riferita al fatto che la stessa recava scarpe con tacchi alti. La stessa si è soffermata a parlare con i due uomini […] la donna, imprecando, arrabbiata, e proferendo la seguente frase: “Porca M….[brutta imprecazione], forza, forza, sbrighiamoci, dai, dai, dai!!”, ha aperto lo sportello posteriore della Mercedes e i due uomini hanno sollevato la borsa, uno da una parte e imo dall’altra, mettendola sul sedile posteriore. Ho notato che la borsa, per la forma che ha assunto nell’atto di sollevarla, doveva pesare parecchio. La donna è risalita sulla Mercedes che è partita in direzione via Guicciardini”.

Fin qui la donna, e non è poco. Ma non basta perché la nuova ricostruzione stabilisce (sulla base di testimonianze) che alla guida del Fiorino non c’era affatto Lo Nigro ma un tipo molto più alto e che Vincenzo Ferro, il mafioso che non si è mai fatto un giorno di carcere, non disse il vero quando sostenne che verso la mezzanotte del 26 il Fiorino venne portato fuori dalla base operativa di Prato per la destinazione finale: erano inequivocabilmente le 22,30 all’incirca, l’ora in cui terminò la finale della 38ª edizione della Coppa dei Campioni tra Olympique Marsiglia e Milan giocata all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, visto che quando il Fiorino lasciò la base operativa Ferro stava comodamente gustando gli ultimi minimi di quella partita. Circostanza solo apparentemente superflua: in realtà consente di affermare che l’auto piena di tritolo mafioso arrivò in via Bardi in un orario coincidente con quella della scenetta vista dal portiere dimenticato. E poiché la quantità complessiva di esplosivo impiegata per l’attentato è di circa 250 chili, i periti sono chiari e sicuri in merito: è assai assai plausibile che in quel frangente di tempo, durante la scenetta con la signora, sia stato definitiva allestito il carico mortale con l’aggiunta di altre sostanze, T4, pentrite e nitroglicerina – oltre alla miscela di tritolo di cui parlano i mafiosi pentiti – plausibilmente in un borsone portato dentro il Fiorino visto da Barreca. L’uso di vari tipi di esplosivo, questione già analizzata anche nel caso della strage di Capaci, apre il tema (o la voragine) dell’eventuale uso di una carica intermedia di esplosivo di tipo militare a mo’ di booster, cioè per rafforzante la detonazione: un apporto non mafioso alla strage che riconduce alla grande questione dei pezzi di verità mancanti. Se ne riparlerà di sicuro.

A proposito delle altre relazioni, segnaliamo quella che riguarda finanche il caso Moro che torna insistentemente sulla figura di Giustino De Vuono, criminale calabrese, grande tiratore d’arma, già coinvolto nel ’75 nel rapimento e nell’uccisione dell’imprenditore Carlo Saronio: la commissione parlamentare guidata da Giuseppe Fioroni, nella scorsa legislatura, accertò che morì come un povero diavolo nel carcere di Scigliano, nel ’94. I Carabinieri del luogo che ospita la sua tomba, Scigliano, testimoniarono che quella è davvero la sua tomba ma questa commissione ora sostiene che effettivamente non è stata mai svolta una ricerca per verificare se De Vuono sia davvero sepolto nel cimitero del Paese. Forse si tornerà a parlarne. Forse

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