di Vera Cuzzocrea

Siamo a Gragnano nella città metropolitana di Napoli: un ragazzo di tredici anni precipita da un balcone. Non conosciamo ancora le possibili responsabilità di un gruppo di giovani che lo avrebbero vessato, né la dinamica su cui le procure competenti stanno indagando. Se confermate le prime ipotesi, con loro si potrà eventualmente riflettere su come costruire occasioni responsabilizzanti e di riparazione del danno prodotto. Ma oggi al centro c’è una famiglia che non ha avuto la possibilità di intercettare quel disagio e ad oggi va protetta, anche da affermazioni infelici come quelle circolate ad opera peraltro non di un comune cittadino. E ci sono molti altri scenari simili.

Perché se fosse come sta emergendo non saremmo solo in questo luogo noto per la pasta, ma anche in tanti altri “dove” in cui si intrecciano dinamiche relazionali di gruppo parimenti pericolose. Potremmo ad esempio trovarci in Norvegia quando nel 1982 un giornale riportò il suicidio di tre ragazzi tra i dieci e i quattordici anni, la cui causa venne attribuita ad una grave forma di bullismo perpetrata da un gruppo di coetanei. Questi casi spinsero il governo a capire meglio il fenomeno e come prevenirlo: venne quindi incaricato un professore di psicologia dell’università di Bergen che dieci anni prima aveva pubblicato il suo primo libro sul tema.

Quasi trent’anni dopo, in Inghilterra, una quindicenne, tonando da scuola, si getta da un ponte spiegando il suo gesto come esito delle continue angherie sofferte fuori e dentro la scuola. E molti altri. Se qualche anno fa una notizia del genere poteva sembrare incomprensibile, ad oggi, purtroppo, abbiamo le conoscenze adeguate per riconoscere la sofferenza generata da condotte di questo tipo, così come scorgiamo il modo moralmente disimpegnato con cui vengono agite. Il (cyber)bullismo è ormai riconosciuto come un problema di salute pubblica, dinamico e multidimensionale, una condotta aggressiva intenzionale, reiterata e agito da un/a bambino/a o adolescente (percepito come) più forte contro un altro/a considerato/a più debole, alla presenza di spettatori. E sappiamo anche l’attribuzione di debolezza da parte di chi agisce la prepotenza così come la percezione di bassa autoefficacia di chi la subisce dipendono da tanti possibili fattori e scenari.

Sappiamo infine l’impatto psicologico che la pandemia ha avuto soprattutto sugli adolescenti scoperchiando vulnerabilità e indebolendo le strategie di protezione. La regione Lazio ha in tal senso erogato delle misure “AiutaMente Giovani” per rispondere a questo bisogno, così come da anni le istituzioni scolastiche hanno implementato iniziative sul bullismo, strumenti di corresponsabilità e spazi di supporto psicologico. Ma di fronte al suicidio di un adolescente percepiamo tutto come tardivo, così come qualunque azione intervenga su un disagio emergente e condotte già disfunzionali. La prevenzione primaria questa sconosciuta!

Vorrei pensare a una agenda politica più concentrata sulla salute mentale fin dall’infanzia e sul rischio di esiti disadattivi, che promuova interventi di educazione alla convivenza civile, orientati allo sviluppo di condotte prosociali e life skills, abilità e strategie per costruire un saper essere e un saper stare meglio in relazione. Perché se le “reti relazionali” sono riconosciute come una componente essenziale del benessere individuale (Rapporto Bes-Istat) e collettivo allora mi aspetto un maggiore impegno istituzionale nel promuovere l’acquisizione di questa risorsa collettiva dello stare meglio insieme, per non fare più così male.

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