Due articoli comparsi in questi giorni su questa testata circa le forniture di gas ed energia elettrica si prestano ad alcune considerazioni.

Il primo è l’intervento a Cernobbio di Sergio Mattarella con cui egli punta il dito contro il “vertiginoso innalzamento dei prezzi dell’energia, favorito anche da meccanismi irragionevoli”. Se è vero che i giganti dell’energia stanno facendo profitti da capogiro a danno di famiglie e imprese, è anche vero che questo non ha nulla di irragionevole. Anzi, è perfettamente comprensibile nell’ottica del libero mercato.

Un mio caro amico che lavora in posizione apicale in un’azienda di servizi pubblici un giorno mi disse: “Nonostante io sia liberale ritengo che i servizi pubblici, tutti i servizi pubblici, non dovrebbero essere privatizzati.” L’Italia invece è stata fra le prime a voler privatizzare i servizi pubblici. Era l’11 luglio 1992, presidente del Consiglio Giuliano Amato; direttore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni quel Mario Draghi, oggi osannato da tutti i partiti e indicato quasi come salvatore di patria. Nel 1992 furono privatizzate Enel ed Eni. Nel 1997, con Romano Prodi presidente del Consiglio e sempre Mario Draghi a ricoprire lo stesso ruolo, fu la volta di Telecom.

In ambedue i casi in Parlamento sedeva sempre Sergio Mattarella. E dopo che lo Stato si è liberato della proprietà dei servizi pubblici, al contrario di ciò che afferma il Presidente, non c’è nulla di irragionevole nel fatto che le aziende mirino ad elevare sempre di più i profitti. Fu un’operazione sciagurata, che a tutta evidenza non poteva che portare danni ai cittadini – come è accaduto, come sta accadendo ora e come accadrà in futuro, anche grazie alle altrettanto sciagurate sanzioni applicate alla Russia.

L’altro articolo degno di nota è a firma di Giovanni Valentini e titola: La “decrescita felice” non è più un’utopia: è una scelta obbligata. Secondo il giornalista l’eventuale razionamento di gas favorirebbe una riduzione dei consumi e quindi un inizio di decrescita felice. Mi permetto anche qui di obiettare. Una carenza di risorse non può innescare una decrescita felice, ma solo una decrescita: infelice.

Egli cita Latouche, al riguardo, ma non a proposito. La decrescita deve essere una scelta consapevole, frutto di una maturazione culturale, non una misura imposta. L’eventuale misura imposta di riduzione dei consumi risulta odiosa a chi la subisce. In realtà, la decrescita dovrebbe essere frutto di una maturazione culturale della popolazione, che si tradurrebbe in una volontaria rinuncia in considerazione del benessere di tutti gli esseri viventi e delle future generazioni. Solo a titolo di esempio, rinuncia a voli aerei e riduzione al minimo indispensabile degli spostamenti, cambiamento di dieta con rinuncia a prodotti di originale animale, chilometri zero per frutta e verdura, recupero della manualità.

Insomma, il concetto di “piccolo è bello”. Solo allora la decrescita sarebbe felice. Ma anche, ammettiamolo, bella e impossibile.

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