Un giorno Warren Buffett disse: “Solo una volta abbassatasi la marea potremo vedere chi ha nuotato nudo”. La frase si applica perfettamente al mondo del calcio nell’era del Covid-19, il cui impatto sulle finanze dei club è stato pesante e appare destinato a lasciare ulteriori strascichi nei prossimi anni. A livello di élite il calcio è governato secondo gli stessi principi capitalistici che hanno reso Buffett uno degli uomini più ricchi del mondo, ma già da ben prima della pandemia molti sue società stavano nuotando nude a causa di cattive gestioni finanziarie. La pandemia ha avuto l’effetto di un uragano abbattutosi su navi che da tempo imbarcavano acqua, e tra queste la nave Italia è tra le meno solide in assoluto. Una situazione ben illustrata dal ReportCalcio 2022 pubblicato dalla Figc.

Nella stagione 2020-21 il calcio professionistico italiano ha fatto registrare una perdita aggregata pari a 1.2 miliardi di euro. Si tratta di un dato quadruplicato rispetto alla stagione 2018-19, l’ultima prima dell’emergenza sanitaria, che si attestava sui 392 milioni di euro. Andando però a ritroso, emerge chiaro il trend che vede le perdite raddoppiare ogni due stagioni: 156 milioni nel 16-17, 215 nel 17-18, 392 nel 18-19, per poi arrivare alla citata esplosione nei due anni di pandemia. Il crollo del valore della produzione del calcio italiano, causato principalmente dai ricavi da ingressi stadio (37 milioni l’importo complessivo, ovvero 250 milioni in meno della stagione precedente), non è stato tamponato da un’efficace strategia di contenimento dei costi, che hanno continuato a crescere, soprattutto per quanto riguarda gli stipendi, aumentati di 367 milioni in un anno. Anche in questo caso, lo squilibrio era visibile già prima dell’emergenza, con l’incremento percentuale dei costi di produzione sempre superiore a quello del valore: nel 2018-19, ad esempio, stagione record per crescita del valore di produzione (3.8 miliardi, +9% rispetto al 17-18), i costi erano cresciuti del 15%, toccando quota 4 miliardi.

Rispetto a quattro anni fa, tra i ricavi della Serie A solo due voci presentano un segno negativo: i già citati introiti da stadio (-87%), e le plusvalenze (-49%), indice della maggior difficoltà di vendita da parte dei club in un mercato semi-bloccato dalle ristrettezza conseguenti alla pandemia. Sono però aumentati i ricavi da sponsor e attività commerciali (+27%) e gli introiti da diritti televisivi e radio (+30%). Questi ultimi nella stagione 20-21, l’ultima presa in esame, hanno toccato la quota record di 1.6 miliardi. Complessivamente, a livello di entrate, la pandemia ha riportato la Serie A ai valori di circa tre anni fa, vanificando soprattutto il buon incremento della stagione 18-19. Il colpo durissimo ai conti lo hanno inferto il costo del lavoro, gli ammortamenti e le svalutazioni, alla base dell’esplosione dei costi di produzione passati dai 2.7 miliardi del 16-17 ai 3.9 miliardi del 20-21. Nel quadriennio il costo del lavoro è cresciuto del 40% e gli ammortamenti del 74%.

Il continuo investimento in nuovi giocatori, anche a parametro zero ma con stipendi “pesanti”, senza riuscire a compensare l’esborso sul mercato con cessioni remunerative, e con l’aggiunta di una situazione di contrazione dei ricavi, ha prodotto l’attuale situazione disastrosa. Basti pensare che nel giro di due anni la poco invidiabile top 5 dei peggiori risultati netti in Serie A nella storia di ReportCalcio (2007-2021) è completamente cambiata. Un tempo appannaggio esclusivo di Inter e Milan (nel periodo precedente al Covid-19 i rossoneri erano primi con 115.9 milioni di perdita in un solo esercizio), oggi la classifica si è fatta più variegata: Inter 20-21 in vetta con 245,6 milioni, seguita dalla Juventus 20-21 (209,9), dalla Roma 19-20 (204), dal Milan 19-20 (194,6) e dalla Roma 20-21 (185,3). Se da un lato le big sono tra le poche a vantare un indice EBITDA positivo, pertanto sono in grado di generare profitti positivi dalla gestione ordinaria, al lordo di interessi, ammortamenti e imposte, per contro sono anche quelle che zavorrano maggiormente il risultato netto: nel 20-21 le perdite medie delle prime quattro classificate in Serie A sono state otto volte superiori a quelle dei club dall’ottavo posto a scendere, e circa il 28% più alte di quelle della zona Europa League.

Attualmente per ogni euro derivante dai ricavi di vendita, un club di Serie A paga in media 68 centesimi in stipendi. Ma se si aggiungono anche i costi imputabili al personale tesserato, vale a dire gli ammortamenti dei diritti dei calciatori, non rimarrebbe nemmeno un centesimo di quell’euro. In Serie B l’89% dei ricavi è assorbito dagli stipendi, in Lega Pro il 103%. In A solo il 10% delle società ha fatto registrare un utile nel 20-21, contro il 16% della B e il 13% della Lega Pro. Ma in queste ultime due categorie il valore della produzione è già di per sé inferiore ai costi operativi, ancora prima di computare ammortamenti, oneri e tasse. In quattro anni il costo del lavoro in Serie B è aumentato del 50%, una percentuale maggiore sia degli incrementi dei diritti tv che di quelli degli introiti da sponsorizzazioni. Sono davvero pochi in Italia quelli che non nuotano nudi.

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