Spesso parliamo di “flessibilità”, un termine ormai entrato nel lessico aziendale, riferendoci a persone o organizzazioni con molta superficialità. Ma di cosa si tratta?

Intanto la flessibilità, più che una competenza (ovvero un “sapere” filtrato dalla esperienza, dal “saper fare”), riguarda una predisposizione individuale che rende la persona incline a cambiare prospettiva, ad adattarsi al contesto e alle sue mutate e mutevoli condizioni, ad aderire a nuove prospettive, ad accogliere favorevolmente il cambiamento. Fa parte del dna dell’individuo e spesso, proprio perché considerata erroneamente competenza, genera confusione.

Mentre infatti le competenze, intese come insieme di comportamenti, possono essere sviluppate attraverso la formazione, il coaching o l’esperienza, la flessibilità, essendo una caratteristica personale, è molto difficile che si possa sviluppare. Per tale motivo è opportuno individuarla nelle fasi di selezione in entrata o nella valutazione del potenziale, se si ritiene un asset importante al fine del successo dell’organizzazione.

Volendo utilizzare una metafora posso sostenere che spesso mi sono ritrovato in aziende che, nelle intenzioni della proprietà, volevano correre i cento metri in dieci secondi rendendosi poi conto, dopo aver effettuato adeguata analisi del potenziale, di avere a disposizione solo tartarughe e lumache. In quelle aziende si fa fatica a reclutare risorse dotate di flessibilità.

La flessibilità può facilitare l’integrazione della persone nel mutevole scenario organizzativo odierno, può agevolare la creazione di spazi di realizzazione personale e può anche essere associata a migliori condizioni di benessere in azienda. E’ bene, però, tenere presente che la flessibilità facilita l’interazione nei contesti in cambiamento ma di per sé non è il motore del cambiamento. E l’agente del cambiamento rimane l’imprenditore che, soprattutto nelle piccole realtà, frequentemente non è un modello di elasticità.

Ma perché, soprattutto nelle pmi, è importante ricercare la flessibilità? Perché in quelle realtà, anche se sono pochi i piccoli imprenditori consapevoli di vivere in una realtà difettosa, il lavoro si basa sull’imperfezione! Certo nella natura dell’essere umano è normale ricercare il “meglio”, ma ben sappiamo che “il meglio”, inteso come le migliori idee realizzate dai migliori talenti e trasformate nel miglior modo in prodotti perfetti, non si realizza (quasi) mai.

Ecco perché è importante imparare ad apprezzare il “difetto” come un elemento intrinseco di ogni ciclo innovativo e di cambiamento. A tal proposito la cultura giapponese propone il principio del wasi-sabi che si basa sulla accettazione della imperfezione.

Quanti difetti ha una piccola impresa? Tanti: processi inesistenti, organizzazione caotica, potenziale umano poco preparato e soprattutto poco flessibile, strategie indefinite. Eppure sono proprio questi difetti che rendono la piccola impresa spesso vincente. E’ raro, infatti, che un imprenditore attenda che la sua idea raggiunga la perfezione per iniziare a realizzarla.

Ovviamente, lungi da me dare spazio a una cultura basata sull’insuccesso, non si tratta di ricercare l’imperfezione o il difetto. Piuttosto si tratta di puntare davvero sull’apprendimento delle competenze e sulla duttilità delle persone e della organizzazione.

Il vasaio saggio usa la crepa del vaso per imparare a evitarla, migliorando la sua tecnica ma non per questo distrugge il vaso appena costruito. Così in una piccola azienda bisogna riconoscere che sono i piccoli difetti di ogni giorno a rendere dinamico il sistema: una procedura mancante, una situazione non considerata, un intoppo alla catena produttiva. Tutti elementi che possono essere considerati positivamente, se da essi derivassero un miglioramento di processo, una superiore reattività, un perfezionamento produttivo.

Sappiamo che è impossibile prevedere tutto ma facciamo in modo, tema già affrontato su questo blog, che una piccola organizzazione sia abbastanza agile da saper reagire alle eventuali eccezioni non come difetto di procedura ma come stimolo al cambiamento. Ricordiamo che la previsione non è una profezia ma il risultato di una simulazione. Senza una simulazione non si può avere una previsione.

Del resto, se l’obiettivo fosse davvero la perfezione, che bisogno ci sarebbe di essere flessibili?

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