Chi paga le crisi? Storicamente, la risposta è quasi sempre uguale: i più deboli, i meno tutelati. Se ciò è vero per le grandi questioni sociali ed umanitarie, lo è anche sul piano economico, e la pandemia purtroppo non è stata un’eccezione. Probabilmente ci vorranno anni per valutare l’impatto generale sul comparto dello spettacolo in Italia, ma esistono già degli studi che espongono dei numeri allarmanti: soltanto nel 2020 sarebbero stati persi circa 13 miliardi di Euro, a fronte di un passivo che, su base europea, arriva invece a sfiorare i 200 miliardi. E ripeto, stiamo parlando solo del 2020.

Forse ancora più sconfortante è il dato, ben più recente, secondo cui questo settore avrebbe perso oltre un quinto dei suoi lavoratori per colpa della pandemia. La ricerca evidenzia come la crisi abbia colpito le donne e i lavoratori tra i 30 e i 50 anni con una famiglia a carico o con un mutuo. Ovviamente, il maggior tasso di abbandono riguarda i professionisti con competenze specifiche relative allo spettacolo dal vivo, che non possono essere riassorbiti ad esempio nei settori televisivo e dello streaming.

Fin dai primi giorni di lockdown, il settore della musica ha chiesto a gran voce attenzione e risposte, sentendosi spesso messo di lato non soltanto per il proprio apporto culturale e sociale al Paese ma anche per l’importanza a livello economico ed occupazionale. È opinione diffusa che lo spettacolo sia stato finora regolato molto male, senza riconoscerne le specificità, e questo appunto lo ha gettato nel baratro a partire dalle prime chiusure del 2020.

Un punto su cui si insiste molto è la cosiddetta “indennità di discontinuità”, e cioè il riconoscimento dei tempi di preparazione e studio come parti integranti dei tempi di lavoro effettivo, perché ovviamente non posso tenere uno spettacolo dal vivo se non mi sono preparato, non lo ho provato eccetera. Si tratta di un tempo di lavoro indispensabile, e come tale va riconosciuto.

Un’ottima notizia, da questo punto di vista è sicuramente l’approvazione definitiva alla Camera, dopo il voto al Senato dello scorso maggio, della legge delega in materia di spettacolo, che appunto accoglie questa ed altre istanze avanzate dai lavoratori. La legge è passata a larghissima maggioranza e senza voti contrari, il che ne evidenzia l’assoluta condivisione al di là delle bandiere politiche. La palla passa adesso al governo, soggetto appunto delegato a stilare un vero e proprio codice dello spettacolo.

Avanti spediti, dunque? Speriamo di sì, anche se tradizionalmente la stagione estiva non è caratterizzata dalla rapidità degli iter legislativi. E anche se, nel momento in cui scrivo queste parole, sembra incombere una crisi di governo, cosa che inevitabilmente complicherebbe il percorso di esercizio della delega legislativa da parte dello stesso governo.

L’ampiezza del consenso parlamentare autorizza, per una volta, ad essere ottimisti. Ma è altrettanto doveroso vigilare sui tempi e sui modi perché ai lavoratori dello spettacolo vengano finalmente riconosciuti i diritti e il ruolo sociale che meritano. E che questo sia il primo passo verso una serie di riforme, già troppe volte rimandate, che riguardino anche gli spazi in cui si fa spettacolo e le imprese culturali e creative. Solo a quel punto, se e quando ci arriveremo, il cerchio potrà dirsi finalmente chiuso.

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