di Giuseppe Mammana

E’ il 5 luglio, sono le 6.15 del mattino, i giornali e le televisioni sono impegnati a raccontare la tragedia della Marmolada. In quel momento a Roma in via della Caffarella 13 i Ros entrano nello spazio della Laboratoria ecologista Berta Caceres e notificano agli occupanti il provvedimento di sgombero. L’operazione viene denominata “speciale” e sin da subito la situazione appare incandescente: i poliziotti entrano in 5-6 dentro le stanze, sequestrano i cellulari, perquisiscono fisicamente due ragazze e non permettono temporaneamente agli occupanti di chiamare i propri avvocati.

Immediatamente all’esterno della villetta fra l’entrata della Caffarella e via dell’Appia Antica diverse persone inscenano un presidio di solidarietà e lanciano l’appuntamento per il pomeriggio davanti la Regione Lazio. Alle 17.30 gli attivisti si ritrovano davanti il palazzo della Regione e partono in corteo, attraversano le vie della Garbatella per arrivare davanti al ministero della Transizione ecologica.

Ma perché tutto questo accanimento contro attivisti e attiviste che hanno riaperto un bene pubblico alla cittadinanza? E perché la Regione Lazio?

Riguardo la prima domanda, i primi due motivi possono essere ricondotti alla tenacia e la determinazione delle Berte (il soprannome che si sono date). La Berta Caceres viene occupata per la prima volta il 6 marzo e qualche settimana dopo, il 24, viene sgomberata. Nonostante questo, le attiviste non si arrendono e continuano a tessere relazioni con la città e il 7 maggio si riprendono lo spazio, arrampicandosi sul tetto. Piano piano con la stessa determinazione e tenacia prende piede la seconda vita della Berta, che si caratterizza per l’organizzazione di laboratori transfemministi e di cura, aule studio, spazio co-working e l’avvio di una taverna, la taberta.

Un altro elemento interessante è da rintracciare nella peculiarità ecologista della mobilitazione. La protesta del 5 luglio si conclude davanti al ministero della Transizione ecologica rimarcando come i morti della crisi climatica abbiano dei responsabili: tutti gli attori politici che in questi anni hanno permesso alle lobby del fossile di continuare a fare profitti attraverso l’estrazione dei combustibili e la devastazione e saccheggio dei territori.

In terzo luogo, le attiviste evidenziano le contraddizioni politiche di chi predica legalità per difendere gli interessi privati che sottraggono spazi e risorse pubbliche alla collettività: la villa costruita negli anni ’50 (che comprende un’area verde e due casette di legno) doveva essere la sede del parco regionale dell’Appia Antica e del corpo forestale e della protezione civile. Ma dopo anni di abbandono e inutilizzo la Regione Lazio, nel 2016, decide di cederla all’Invimit (società partecipata con il ministero dell’Economia) per fare cassa.

Un altro elemento che denunciano le berte è il carattere schizofrenico della parola legalità: l’ipocrisia di una classe politica connivente con un sistema edilizio che utilizza i polmoni verdi della città per tutelare la speculazione. Parliamo dell’abusivismo di lusso: la villetta rappresenta un’operazione di lottizzazione e costruzione abusiva dentro un’area in cui vi sono numerosi vincoli per le costruzioni. Un esempio emblematico che sottolinea il punto di congiunzione tra patrimonio pubblico e favori fatti ai soliti “volti noti”, agli “amici degli amici” e alle grandi famiglie dei costruttori.

A questo proposito è interessante notare come i difensori più accaniti e servili agli interessi privati della città sono apparsi la lista Calenda e Fratelli d’Italia. Il 28 giugno con una mozione presentata e respinta dal Consiglio del Municipio VIII fanno da apripista allo sgombero chiedendo un intervento contro l’occupazione.

Ma le berte sollevano cori contro quelli che continuano a proporre la costruzione di inceneritori e discariche che causano malattie ed effetti devastanti per il clima e l’ambiente. Mi preme ricordare la campagna Inceneritori né qui né altrove che insieme ad altri comitati assumono un’importanza notevole dopo le parole di apertura alla costruzione del sindaco Gualtieri. Ma soprattutto la capacità di denunciare il ruolo dei fondi immobiliari che entrano nella gestione degli spazi pubblici.

La villetta rappresenta il “modus operandi egemone” nella gestione del patrimonio pubblico: la creazione di fondi immobiliari pubblici con il compito di svendere luoghi della collettività per ridurre il debito tramite scatole cinesi che frazionano la gestione degli stessi. Il decreto legge del 2011 prevede che Invimit possa istituire e gestire fondi di fondi promossi da regioni, province o comuni o da altri enti pubblici. È qui risiede il ruolo della Regione Lazio: da uno studio svolto dagli stessi attivisti si evidenzia come la villetta sia di proprietà di un fondo dei fondi, denominato I3, di cui la Regione risulta proprietaria del 70%. In pratica troviamo diversi attori che esercitano un ruolo ma nessuno di questi gode di una responsabilità esclusiva.

A questo punto la domanda sorge spontanea: se il fondo I3 è di proprietà per il 70% della Regione Lazio, qual è il vero proprietario di via della Caffarella 13? Invimit (la società che gestisce il fondo)? O la Regione (l’ente pubblico che gestisce il fondo)? E chi deve decidere?

E qui salta all’occhio un ultimo particolare dello sgombero avvenuto il 5 luglio, nonostante la Regione Lazio continui a smentire di essere la proprietaria dell’immobile. La Procura di Roma che autorizza lo sgombero sostiene il contrario: il giudice afferma che l’immobile sia di carattere pubblico e cioè di proprietà della Regione Lazio. Insomma per gli attivisti si conclude una pagina ma a noi cittadini restano degli interrogativi. In particolare mi chiedo: chi sono i veri padroni del patrimonio pubblico della città?

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