La forza simbolica della prima parte del “Moro” di Bellocchio viene mortificata dal sequel, tutto appiattito, diremmo strisciante sulla falsa verità raccontata dal Memoriale Morucci.

Mentre un pezzo di società è fortemente impegnato nella ricostruzione della memoria storica del nostro Paese, il mondo della cultura con alcuni suoi altissimi esponenti va da una altra parte. Se il ‘caso Moro’ appare come una sorta di labirinto inestricabile in realtà molti aspetti li abbiamo compresi bene. In particolare, sappiamo che tutta la verità ufficiale – avete presente? sparatoria, fuga in auto verso via Montalcini, l’angusta prigione, lo sparo nel garage e così via – è una finzione elaborata in una operazione dei servizi segreti, sponsorizzata da Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, chiamata Memoriale Morucci. Lo smontaggio di questa costruzione letteraria è stato opera della Commissione parlamentare d’inchiesta della XVII legislatura che ilfattoquotidiano.it vi ha raccontato nelle sue tappe.

Certo, i commissari avrebbero potuto fare molto di più, chissà, ma questo passaggio ‘decostruens’ è stato assolto in pieno. Dunque, sarebbe per lo meno naturale che il mondo della cultura e dell’informazione si adoperasse con i propri strumenti per tradurre nuove immagini e nuovi simboli che lascino comprendere almeno che c’è molto da scoprire e da capire e da elaborare. Avremmo cioè bisogno di intellettuali che abbiano voglia di fare uno sforzo di elaborazione, per darci almeno guizzi di nuova luce.

Oggi Marco Bellocchio con la sua opera filmica, qualche tempo fa Ezio Mauro con il suo documentario Cronache di un sequestro, hanno disertato questa responsabilità. Raccontandoci la versione dei fatti elaborata nel Memoriale Morucci scritto a più mani su un tavolino del carcere di Paliano dove erano detenuti Morucci e altri cosiddetti ‘dissociati’ – cioè coloro che usufruivano di particolari sconti di pene con la scelta di prendere le distanze dalla lotta armata. Questo non va bene, è molto grave. Come si elabora una nuova visione del nostro patrimonio storico se pigramente restiamo ancorati alle deformazioni passate? Ovvio che non si può. Possiamo sempre prendercela con la politica, ‘che viene facile, ma registi, giornalisti, letterati? Diamo a tutti licenza artistica e dicano un po’ quel che vogliono?

Nella prima parte di Esterno notte Marco Bellocchio, che in passato si è cimentato con la stessa vicenda con un non riuscito film onirico, Buongiorno notte, ha rappresentato con forza il peso insopportabile che si portava dietro Aldo Moro. Quella via crucis dove a portare la croce è proprio Moro, dietro la Dc con suoi leader, dà una immagine efficace del fardello che il presidente sente addosso, quel partito infestato di vecchi arnesi “massoni, mafiosi e criminali” ma ricco anche di sincere spinte al rinnovamento.

Moro lo dice nel suo ultimo discorso, di fronte agli “amici” che non vogliono l’incontro con Berlinguer: dovete accettarlo perché noi non ce la facciamo da soli a governare il Paese, e dovete accettare anche di stare in questo partito. Moro è da sempre convinto, infatti, fin dai tempi del centrosinistra, che la rottura dell’unità della Dc avrebbe liberato le pulsioni fascistoidi e reazionarie che già avevano dato prova di cosa erano capaci di fare. E che erano state protette, a durissimo prezzo.

La prima parte del film annuncia una visione elaborata, e ha una sua forza politica di denuncia – la sorte di Moro segnata da scelte indotte in sedi internazionali – raccontando di quella trattativa messa in piedi dal Papa, con Servillo al suo meglio. Paolo VI trova molti soldi, tantissimi, senza poterci fare nulla: chi lo boicottò? Chi poté interferire in quel modo sulla Santa Sede? Il Papa vorrebbe fare ma non gli restano che i sensi di colpa: al punto da farsi stringere al massimo il vecchio cilicio, fino a lasciarsi sanguinare la carne. Più di così non può. “Liberatelo senza condizioni”, dice alle Br: “e Moro capì quel giorno, con quel discorso, che s’era fatta sera”, scrive Prospero Gallinari nelle sue memorie.

Ci eravamo illusi che stesse prendendo forma una nuova immagine della vicenda: Moro non fu salvato dal suo partito e le Br vennero sbaragliate, in cerca di un interlocutore che Pieczenick, il criminologo americano mandato da Kissinger, giovane e dinamico accanto ad un Cossiga tormentato e cupo, gli sottraeva continuamente, mandandole in confusione, ormai compromesse da chissà quali trattative sui documenti che Moro gli aveva di sicuro consegnato. Bellocchio sembrava volesse cimentarsi con una nuova ricostruzione del delitto politico più importante del Novecento italiano, insieme a quello di Giacomo Matteotti, partendo da uno scenario complesso e internazionale nel quale le Br pretendono di essere protagoniste ma non lo sono affatto.

Poi all’improvviso nella seconda parte cambia del tutto registro. Luce puntata su Valerio Morucci e Adriana Faranda. L’ottantatreenne regista dà a loro le chiavi del suo film, sembra essersi innamorato della coppia, non ha più niente da dire. E non si può dargli licenza se la sua scelta cade sul falso. Lo scontro tra i buoni e i duri dentro le Br – una stantia e superata rappresentazione – l’angusta prigione che, sì, metaforicamente una prigione è sempre così, ma si ritorna alla falsità del racconto che vuole Moro per 55 giorni in un ristrettissimo ripostiglio dell’appartamento di via Montalcini contro l’evidenza delle perizie che escludono una detenzione in quelle condizioni.

Nessuna visione, nessun simbolo per raccontare cosa abbia rappresentato l’assassinio di Aldo Moro per il nostro Paese. Resta solo quella bandiera italiana attorcigliata, Cossiga prova a liberarla con un gesto di rabbia che, tuttavia, non può essere riparatore.

Una grandissima prova attoriale di Fabrizio Gifuni e Margherita Buy, di tutti, ma loro speciali, Gifuni si trasforma fino a diventare Moro. Ma Bellocchio, staccandosi dagli elementi di realtà che il tempo ci ha fornito, rinuncia a portare in avanti la consapevolezza collettiva della vicenda. Peccato, occasione persa.

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