di Stefania Rotondo

La statua di Giulio Cesare nell’aula a lui dedicata sovrasta gli scranni dell’Assemblea capitolina di palazzo Senatorio. Seduta nel settore della sala destinato al pubblico, odo il flap-flap degli elicotteri che sorvolano il cielo rovente di Roma. Le pale gettano acqua sulle lingue di fuoco che da giorni bruciano parchi e sterpaglie, lambendo abitazioni. A metà giugno sono bruciati due capannoni di rifiuti a Malagrotta. Un disastro con tre emergenze: le fiamme, la diossina e il caos rifiuti. L’odore acre invade la città, la cenere piove dal cielo. Un vero inferno. Dopo aver atteso un’ora il bus sono arrivata in via Petroselli. Mi sono incamminata verso la Cordonata capitolina e sui marciapiedi un carpet di sacchi di rifiuti si è dispiegato sotto i miei piedi fino al primo gradino della scalinata del Campidoglio. Il mio mentore, un noto intellettuale napoletano, mi dice spesso che dobbiamo avere l’umiltà di porci domande, ma dobbiamo avere anche il coraggio di chiedere risposte. È per questo che oggi sono qua, in Campidoglio, per porre rispettosi quesiti, nella speranza coraggiosa di ricevere riscontri.

All’entrata di palazzo Senatorio, un vigile mi ha chiesto come poteva aiutarmi. Ho risposto che avrei voluto parlare con il sindaco, o con un assessore, o con un consigliere. Ha sorriso. Mi ha condotto nell’ufficio reclami e mi ha spiegato che avrei dovuto compilare un foglio. Abbiamo cominciato a parlare. Di rifiuti, termovalorizzatore, tassisti, mezzi pubblici, caro benzina, e anche dell’indisciplina di noi romani. Il vigile mi ha parlato di soluzioni pratiche, semplici. Abbiamo rammentato re, imperatori, papi e Nerone, che forse è stato l’unico a capire tutto. Poi gli ho chiesto come fosse possibile che un Sindaco, ex ministro delle Finanze, passato alla storia per essere riuscito a varare una finanziaria epocale (2021) da 39 miliardi. capace di dare impulso alla ripresa economica del Paese in piena pandemia, non riesca ad opporsi alle mafie nazionali, cittadine e dei palazzi. ‘Non è colpa sua’, mi ha risposto. ‘Si sta tenendo l’Assemblea capitolina. È aperta al pubblico, lo sa? Magari con un po’ di fortuna riuscirà a parlare con un consigliere’, mi dice. L’ho seguito. Un impiegato addetto alla ricezione un po’ burbero mi ha rilasciato un pass.

Il vigile mi ha condotto su una passerella di metallo, sopra le rovine del Tempio di Veiove e del Tabularium. Le pareti trasudano storia, ma incutono soggezione, subalternità. Abbiamo percorso la salita che ci ha condotto al secondo piano. ‘Ecco l’aula Giulio Cesare. Qui di fronte c’è un’area bar se vuole un caffè’. L’ho ringraziato e salutato. È quasi mezzogiorno. Il bar è pieno di persone. Consiglieri, assessori, segretari conversano sorseggiando cappuccini. Sono l’unica cittadina presente in aula. Insieme a me una decina di rappresentanti di corporazioni. Una consigliera parla al microfono. Nessuno pare ascoltarla. Dagli scranni c’è chi conversa, chi sta al cellulare. ‘Stiamo facendo il possibile sul decoro … incendio di Malagrotta … stiamo cercando altri sbocchi … siamo cittadini e non amministratori … interventi significativi su trasporto pubblico … caro bollette per la guerra … risorse per Roma … Pnrr’. Cose importanti, penso.

È prevista la votazione. Mancano all’appello alcuni consiglieri. Uno si precipita al bar, urlando: ‘Si vota! Sbrigatevi!’. Un corri corri verso gli scranni. Si svolge la votazione. Proposta approvata. Un consigliere propone una pausa per il pranzo. L’aula si svuota. Ripercorro a ritroso la passerella. Riconsegno il pass all’addetto burbero. Gli prometto di ritornare. ‘E’ una minaccia?’, mi chiede sorridendo. ‘E’ una promessa’, gli rispondo. Mentre mi incammino sotto il sole rovente e gli elicotteri volteggiano sui Fori, penso al povero Giulio Cesare. Mi dico che oggi ho avuto più risposte di quelle che auspicavo e che come Sindaco, alle prossime elezioni, eleggerei il vigile!

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