“Parlai al presidente della Repubblica. Riferii tutto quello che mi disse Davigo e lui non fece commenti”. Lo ha sostenuto oggi in aula a Brescia David Ermini, vicepresidente del Csm sentito come teste al processo nei confronti di Pier Camillo Davigo, ex componente di Palazzo dei Marescialli imputato per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, un’associazione segreta che metteva insieme magistrati, politici e faccendieri. Al numero due del Consiglio superiore il presidente della prima sezione del tribunale di Brescia, Roberto Spanò, ha stabilito di riservare “un’udienza dedicata“, per chiarire se e come Davigo mise al corrente alcuni colleghi dei verbali dell’interrogatorio dell’ex avvocato esterno di Eni, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari (assolto in primo grado dalla stessa accusa. Sentenza contro cui la procura di Brescia ha fatto ricorso) che denunciava una presunta inerzia dei vertici della procura lombarda: secondo Storari i suoi superiori non volevano indagare sulla cosiddetta loggia Ungheria.

Ermini: “Avvisai Mattarella” – Oggi, dunque, è toccato a Ermini sedersi sul banco dei testimoni, davanti a Davigo, che ha scelto di farsi giudicare con rito ordinario in un’udienza pubblica. L’ex deputato del Pd ha raccontato di essere andato al Quirinale, per una visita già programmata, nella quale parlò anche del caso Milano e delle dichiarazioni rese ai pm da Amara. A raccontargli di quelle dichiarazioni era stato Davigo. “Dopo un primo colloquio al rientro dal lockdown il 4 maggio 2020, qualche giorno dopo il consigliere Davigo si presentò da me senza appuntamento con una cartellina e mi disse che mi aveva fatto stampare queste dichiarazioni. In quell’occasione l’allora consigliere Davigo ripete tutto quello che mi aveva detto nel primo incontro, ma sfogliando questa cartellina. Erano tutti fogli non firmati, alcuni con intestazione, altri senza, che contenevano le dichiarazioni che questo Amara aveva reso a dei pubblici ministeri a Milano”, ha sostenuto il vicepresidente del Csm. “Via via che scorreva vidi alcuni nomi che erano scritti e su qualcuno ebbi anche qualche dubbio”, ha continuato Ermini, riferendo: “Sulle prime ero un pò perplesso del fatto che mi fossero mostrati degli atti informali“. All’uscita Davigo “mi lasciò i verbali. Io li presi e li cestinai, perché noi al Consiglio non possiamo avere atti che non arrivano in modo forma”. Ma perché Davigo consegnò quei verbali al vicepresidente del Csm? “Secondo me – sostiene Ermini – fu una confidenza che il consigliere Davigo volle farmi. Mi consegnò quei verbali, li presi per fargli una cortesia ma li cestinai perché erano irricevibili“. Sempre secondo Ermini fu Davigo a chiedergli “di avvisare il presidente Mattarella, e io concordai”.

“Distrussi i verbali” – Una ricostruzione, quella di Ermini, che contrasta completamente con quanto messo a verbale da Davigo. Sugli atti con le dichiarazioni di Amara consegnati al vicepresidente del Csm, l’imputato ha detto ai pm di Brescia: “Non è vero quello che dice Ermini. I verbali dovevano venire in un secondo momento, però siccome continuava a chiedermi i nomi e io non li ricordavo a un certo punto gli ho detto: Senti, se vuoi ti do questi file stampati’”. Secondo Ermini, invece, Davigo gli fece “una confidenza” ma “non mi chiese di formalizzare. Non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi. Mi ha detto che della vicenda se ne occupava il pg della Cassazione Salvi, e per me la questione era chiusa”.

Le dichiarazioni di Davigo – Davigo, presente in aula, ha poi chiesto di fare dichiarazioni spontanee: “La cosa più facile per me sarebbe stata fare una nota di servizio e consegnarla, ma quando viene protocollata, viene vista da quella struttura”, cioè l’intera struttura amministrativa del Csm, “che questa presidenza ha ritenuto non molto affidabile”, ha detto l’ex consigliere del Csm. Menzionando la fuga di notizie sull’indagine condotta dalla Procura di Perugia su Luca Palamara, Davigo ha detto che “non si trattava di una vicenda isolata e anomala, ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare”. Nelle dichiarazioni spontanee rese in aula l’imputato ha ribadito di aver agito guidato dalla “finalità principale che quel processo (l’indagine della Procura di Milano sulla presunta loggia Ungheria, ndr) tornasse su binari di legalità, perché non c’erano i binari di legalità”. Per questo – ha detto “quando Storari arriva da me, io ricevo una notizia criminis. Io sono pubblico ufficiale e ho l’obbligo di denunciare, cosa che feci al procuratore generale Salvi”. “La questione – ha concluso Davigo – era che io dovevo comunque segnalarlo in modo che non potesse arrecare danno alle indagini”.

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