Brindisi come Rotterdam, Anversa, l’area di Stenungsud (in Svezia) e le coste del Texas. Cosa accomuna questi luoghi? Proprio come le altre aree vicine a impianti specializzati nella produzione di materie plastiche, sulle spiagge limitrofe al petrolchimico di Brindisi si registra un’elevata presenza di nurdles, microplastiche note anche come pellet, della dimensione di una lenticchia e prodotte dalla raffinazione di idrocarburi come petrolio e gas fossile. Lo rivela il report ‘Inquinamento silenzioso’ elaborato da Greenpeace Italia e pubblicato in anteprima da ilfattoquotidiano.it nell’ambito della campagna ‘Carrelli di plastica’. Il dossier illustra i risultati di campionamenti effettuati nel 2021 in dodici spiagge lungo le coste pugliesi. In seguito ai risultati, l’organizzazione ambientalista ha presentato un esposto in procura, “chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di granuli”. I nurdles, infatti, vengono prodotti negli impianti petrolchimici e costituiscono il materiale di partenza da cui si ricavano diversi oggetti in plastica. Dagli imballaggi ai componenti per l’industria automobilistica, per l’edilizia e l’elettronica. “I dati raccolti dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita”, spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace. Greenpeace Italia ha indagato la presenza di granuli in dodici spiagge situate a differenti distanze dal petrolchimico di Brindisi (tra 0 e 100 chilometri). Durante i campionamenti sono stati raccolti 7.938 pellet: il 66,8% è stato individuato nei tre siti vicini allo stabilimento brindisino con la concentrazione maggiore (2657 nurdles) registrata sull’isola di Sant’Andrea, nell’area portuale di Brindisi (sito di campionamento B1, ndr).

La contaminazione nell’area di Brindisi – Gli altri due siti vicini sono stati localizzati nell’area marina prossima all’impianto, sulle spiagge accessibili davanti al petrolchimico: nei siti A1 e A2 sono stati racconti rispettivamente 1.340 e 1.308 pellet. In direzione nord sono stati effettuati campionamenti a 50, 25, 20 e 12 chilometri dall’area del petrolchimico, in direzione sud a 50, 25, 20 e 12 chilometri. I siti di campionamento più distanti hanno mostrato, quasi ovunque e seppur con differenze stagionali, livelli di contaminazione inferiori, con un minimo di 9 granuli raccolti nella spiaggia situata a 50 chilometri a nord del petrolchimico. Gran parte dei nurdles (circa il 70% del totale) erano traslucidi e trasparenti. “Un’evidenza che, stando alla letteratura scientifica, sembra indicare un rilascio recente nell’ambiente. Di tutti i granuli raccolti – spiega l’associazione – il 78% è in polietilene, un tipo di plastica prodotto in loco dall’azienda Versalis, di proprietà di Eni, mentre poco più del 17 per cento è in polipropilene (un polimero plastico prodotto nell’area da Basell Poliolefine Italia).

Le richieste di Greenpeace – Per un caso di inquinamento analogo, nell’area di Rotterdam un’azienda produttrice è stata al centro di una vertenza legale in cui è stata costretta a farsi carico dei costi di pulizia dell’ambiente. In seguito ai risultati dei campionamenti, Greenpeace sollecita gli enti pubblici nazionali e locali affinché si realizzi un monitoraggio indipendente e approfondito sulla presenza di pellet nell’area brindisina per individuare tutte le fonti di inquinamento. “In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche” commenta Ungherese. Greenpeace chiede quindi a Versalis e Basell Poliolefine Italia “di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento” e, al ministero della Transizione Ecologica, di prevedere nei futuri rinnovi delle autorizzazioni ambientali (VIA, AIA etc) relative agli impianti industriali che producono granuli prescrizioni specifiche per azzerare parametri sull’inquinamento da microplastiche.

Dalla filiera della plastica agli incidenti – La dispersione in natura di questi granuli, infatti, può essere riconducibile a perdite nella filiera delle materie plastiche. “Nonostante esistano da anni iniziative volontarie da parte dell’industria che cercano di azzerare questa contaminazione (ad esempio Operation Clean Sweep) – spiega Greenpeace – numerose evidenze mostrano come la dispersione di questa tipologia di microplastiche prosegua”. Sono diversi i casi recenti segnalati nelle grandi aree portuali nordeuropee, sedi di importanti poli produttivi di materie plastiche come Anversa e Rotterdam, dove si registrano elevati livelli di contaminazione da nurdles. Ma la dispersione nell’ambiente può avvenire anche a causa di incidenti, come nel caso della nave X-Press Pearl al largo delle coste dello Sri Lanka del maggio 2021. In occasione del disastro che ha colpito le coste del Paese asiatico sono stati rilasciati in mare numerosi container carichi di granuli di polietilene, uno dei polimeri plastici più utilizzati al mondo. In pochi giorni circa 1.680 tonnellate di pellet, integri o bruciati in seguito all’incendio scoppiato a bordo, hanno ricoperto oltre 50 chilometri delle coste dello Sri Lanka, per quello che dalle Nazioni Unite viene ritenuto, per proporzioni, il più grande singolo sversamento di plastica mai registrato nella storia umana.

I dati sulla dispersione di nurdles – Ma, secondo i dati della società di consulenza Eunomia redatti per conto della Commissione Ue nel 2018, i pellet rappresentano la terza fonte (in termini di peso) di microplastiche nell’ambiente, la seconda se si considerano solo quello acquatico. “Soltanto in Europa – aggiunge Greenpeace – il loro rilascio nell’ambiente può superare le 167mila tonnellate annue, pari a circa 265mila granuli al secondo (equivalenti in peso a circa 20 torri Eiffel)”. A causa delle loro piccole dimensioni e per questioni tecniche ed economiche, è impossibile rimuoverle una volta rilasciate nell’ambiente: “Come tutte le altre plastiche, oltre ad andare incontro a processi di degradazione estremamente lenti e della durata di decine, se non centinaia di anni, possono rompersi in frammenti di dimensioni ancora più piccole ed essere trasportate su lunghe distanze raggiungendo ogni angolo del globo”. Queste particelle possono andare a ostruire le branchie dei pesci, compromettendone la capacità respiratoria, oppure essere scambiate per cibo da alcuni organismi e di conseguenza entrare nel loro corpo. “Possono poi essere fonte di varie sostanze inquinanti e tossiche – spiega Greenpeace – associate alle materie plastiche e causare così conseguenze negative sugli esseri viventi e, come tutte le plastiche disperse in natura, possono assorbire inquinanti dall’ambiente circostante, diventando un vettore di altri contaminanti nel corpo dell’organismo che le ingerisce”. Una recente indagine condotta da IPEN (International Pollutants Elimination Network) su granuli di plastica raccolti sulle spiagge di 23 nazioni ha evidenziato la presenza di policlorobifenili (PCB, sostanze chimiche di sintesi vietate a partire dalla metà degli anni Novanta) in tutti i campioni.

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