“Questo pomeriggio sono andato a comprare una vaschetta di gelato in una nota gelateria artigianale vicino a casa mia: vaschetta di polistirolo, foglio di copertura di plastica e sacchetto che all’apparenza è alluminio, ma è plastica”. Un test in laboratorio non è stato fatto, ma certo sarebbe stato interessante capire se di tutta questa plastica descritta da un lettore de ilfattoquotidiano.it qualcosa sia finita nel gelato. Ed è con questo spirito che oggi, nell’ambito della campagna ‘Carrelli di plastica’, portata avanti ormai da settimane insieme a Greenpeace, lanciamo una call to action per chiedervi di raccontare le vostre abitudini e i vostri dubbi su quello che mangiate ogni giorno. Scrivete a sostenitori@ilfattoquotidiano.it, partecipate al dibattito sul forum, chiedendoci di alimenti su cui avete dubbi, offrendoci nuovi spunti di riflessione, segnalando casi controversi. Perché, come hanno raccontato gli scienziati consultati da ilfattoquotidiano.it, microplastiche e microfibre finiscono in alimenti e bevande e, man mano che le ricerche estendono il loro ‘raggio d’azione’, si fanno nuove (e preoccupanti) scoperte. Frammenti di plastica sono stati trovati in pesci, sale, miele, soft drink, birra. Gli esperti ci hanno dato qualche consiglio, spiegando che è principalmente attraverso l’alimentazione che arriva nella placenta e nel latte materno, il primo nutrimento.

Alimenti e bevande contengono plastica. Ma perché? – Microplastiche e nanoplastiche possono contaminare cibo e bevande attraverso l’ambiente, l’aria che respiriamo, ma anche durante i processi produttivi e conservativi (come nel caso della vaschetta di gelato). Diverse, ad esempio, le ricerche degli ultimi anni sul miele, ma neppure l’ultima – condotta in Danimarca e pubblicata sulla rivista Science of the total environment – è riuscita a chiarire le dinamiche di questa contaminazione. Gli alveari sono stati utilizzati come biorilevatori: diciannove i siti di osservazione, nove nel centro urbano di Copenaghen e dieci in aree periferiche. Polimeri sono stati trovati in tutti gli insetti monitorati, in frammenti di varie dimensioni (comprese tra un millesimo di millimetro e 5millimetri) e di tredici tipologie diverse, soprattutto poliestere, polietilene e pvc.

Uno dei risultati più inaspettati dello studio, tra l’altro, è stato scoprire che la contaminazione nelle aree suburbane e rurali non è poi così inferiore a quella registrata nei centri urbani. A confermare che si fa fatica a indicare quale sia la provenienza di queste microplastiche. Un po’ come avviene per i pesci, che possono ingerirla, ma possono esserne contaminati in una qualsiasi delle fasi che portano questi prodotti sulle tavole dei consumatori di tutto il mondo. Nel 2014 ha fatto molto scalpore uno studio dell’Università di Oldenburg su 24 marche di birra tedesche acquistate al supermercato: 12 chiare, 5 birre di frumento e 7 analcoliche. Ebbene, in ogni bottiglia sono stati trovati frammenti, fibre e granuli di plastica, molti anche colorati. Diverse le ipotesi formulate dai ricercatori sulla contaminazione, dal contenuto di microplastiche nella materia prima fino alle condizioni di pulizia e dei macchinari per il filtraggio, ma tuttora non si hanno risposte certe.

Cosa sappiamo sugli effetti delle sostanze chimiche sull’uomo – La scienza, però, fornisce alcune certezze, che ilfattoquotidiano.it vuole ricordare. Perché se si sta ancora cercando di dimostrare quali effetti l’ingestione di queste microparticelle può avere sull’essere umano, ben noti sono quelli sugli animali, a iniziare da quelli marini. A preoccupare, poi, come confermato dagli esperti, sono soprattutto le conseguenze (e quelle sono già ampiamente indagati) che ha l’ingestione di sostanze chimiche normalmente utilizzate nella produzione di plastiche. Nel libro ‘Non tutto il mare è perduto’ di Giuseppe Ungherese, responsabile della Campagna Inquinamento di Greenpeace si ricorda anche questo aspetto che non va sottovalutato, perché questi additivi servono per rendere le plastiche ignifughe, flessibili, elastiche, per garantirne la stabilità termica, per ottenere un effetto antiossidante ma anche per prevenirne ingiallimento e invecchiamento.

In altre parole: ad oggi sono indispensabili all’industria. “Purtroppo – spiega Ungherese – conosciamo solo una parte di questi additivi, in molti casi protetti da segreto industriale. Tuttavia, esistono diversi studi che caratterizzano dal punto di vista tossicologico quelli il cui impiego è noto. Abbiamo prove sufficienti che ne dimostrano la pericolosità anche per la salute umana, con conseguenze sul sistema endocrino e ormonale, per non parlare degli effetti tossici e cancerogeni”. Tali sostanze si possono trasferire dagli imballaggi all’organismo umano attraverso il cosiddetto ‘fenomeno della migrazione’, ovvero il trasferimento di sostanze dal contenitore al cibo grazie all’alta temperatura o al contatto con alimenti acidi.

Dagli ftalati al bisfenolo A (e ai suoi sostituti) – Tra i gruppi di sostanze contenute nelle plastiche, gli ftalati sono sicuramente i più conosciuti: “Il loro impiego è necessario a modulare la consistenza del materiale al fine di renderlo facilmente lavorabile”. Tant’è che vengono aggiunti nel processo che porta alla formazione del polivinil cloruro (PVC), usato per la produzione di tubature ma anche di tessuti sintetici, packaging alimentare e pavimentazioni. Per alcuni ftalati si conoscono diversi effetti negativi sull’uomo: obesità, asma, resistenza all’insulina, interferenza con il corretto funzionamento del sistema ormonale, danni alla fertilità e sullo sviluppo del feto. Un altro additivo molto comune è il bisfenolo A “utilizzato – racconta Ungherese – nella fabbricazione di prodotti in policarbonato come CD, DVD, attrezzature sportive e bottiglie ma anche nelle resine epossidiche, impiegate per creare il sottile rivestimento presente all’interno di tubi, contenitori in latta per alimenti e bottiglie in alluminio”.

Tra gli effetti sulla salute “cancro al seno, infertilità, pubertà precoce, diabete, obesità e disordini a livello neurologico”. Eppure nel 2020 il suo uso è stato regolamentato, in Europa, solo in alcuni prodotti come i biberon per neonati e la carta termica degli scontrini. Nel frattempo, però, le ricerca hanno destato molto allarme. “Per essere pronta a far fronte alla possibile introduzione di ulteriori divieti – spiega l’esperto di Greenpeace – l’industria si è già riorganizzata sostituendo il bisfenolo A con composti simili (bisfenolo S, P e Z) non regolamentati, ma altrettanto pericolosi”. Tra gli additivi nocivi anche i ritardanti di fiamma a base di bromo e i composti perfluoroalchilici (conosciuti come PFAS), noti interferenti endocrini, in grado di compromettere il meccanismo che regola lo scambio di segnali tra organi mediato dagli ormoni, indispensabile per funzioni vitali come la crescita, lo sviluppo sessuale e il metabolismo.

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