C’è un altro 1° maggio, fatto di riti, serpenti, e una cerimonia che unisce alla tradizione pagana quella cristiana. “Paese che vai, usanza che trovi”, si dice appunto. La scorsa domenica, migliaia di persone a Cocullo (L’Aquila) – 130 chilometri dalla capitale – partecipavano alla Festa dei serpari, la più famosa e misteriosa celebrazione folcloristica d’Abruzzo, tornata ai fasti di un tempo dopo due anni di pausa a causa della pandemia.

Un rituale millenario – Il paese si trova nel cuore dell’Abruzzo, “sospeso fra la terra marsicana e la valle Peligna”, e conta 213 abitanti. Ogni anno, il primo giorno di maggio, la festa attira una media di 20mila turisti – nel 2008 furono 50mila – che, insieme ai residenti, omaggiano la figura di San Domenico abate, patrono del borgo e protettore contro il morso dei serpenti, il mal di denti e la rabbia. Le origini della festa, secondo alcuni, risalgono al rito pagano di venerazione della dea Angizia, divinità associata al culto dei lunghi rettili e adorata dalle antiche popolazioni italiche dei Marsi, dei Peligni e di altri popoli osco-umbri.

Roberta Ferlito-2016

I preparativi – A rendere la Festa dei serpari un evento più unico che raro – tanto da essere candidata presso l’Unesco come Patrimonio immateriale dell’umanità – è proprio l’animale a cui la simbologia giudaico-cristiana ha sempre attribuito un’indole infida e ingannatrice. “Solo per la Chiesa è un simbolo negativo, perché in tutto il resto del mondo è un simbolo di immortalità e fecondità”, precisa Mario Volpe, 68 anni, per 40 anni al servizio del comune e della proloco di Cocullo. Un signore che della celebrazione conosce ogni minimo particolare, a cominciare dalla cattura dei rettili da parte di circa 30 serpari, esperti – e, negli ultimi anni, anche esperte – nella ricerca e nella raccolta dei colubri: “Ai primi tepori primaverili, vanno in giro per le campagne perché i serpenti escono dal letargo: è un lavoro difficile dato che ci vogliono tante accortezze. Una volta catturati, si conservano in scatole di legno, fino al giorno della festa, passata la quale verranno riportati nel loro habitat”. Le specie – non velenose – sono quattro: il cervone, il saettone, la biscia dal collare, il biacco (serpe nera). E per chiunque fosse preoccupato per la salute di questi animali, basti pensare che i cocullesi hanno “un’autorizzazione del Ministero dell’ambiente, da rinnovare ogni 2 anni”. Per ottenerla, spiega Volpe, “devono inviare un report annuale al ministero su tutti i serpenti catturati: vengono esaminati dagli erpetologi, che li misurano, li pesano, e ad alcuni viene anche messo un microchip”.

Franco Risio

La mattina del dì di festa – Alle 8 inizia la cerimonia e a quell’ora i vicoli del paese sono già colmi di curiosi e fedeli. “La statua di San Domenico – racconta – esce dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie alle 12, viene ricoperta di serpenti e fa tutto il giro del paese”. Si potrebbe dire che il rito raggiunge l’acme nell’istante stesso in cui prende avvio: “Il significato della festa è la riconciliazione di due mondi – puntualizza – il santo, vestito di serpenti, fa da riconciliatore del mondo umano col mondo naturale/animale, storicamente avversi. La festa è la ‘ri-attuazione’ di un evento mitico a un livello cerimoniale, tipico di tutte le feste”. “La processione dura circa un’ora e mezza – conclude – il santo torna poi davanti alla chiesa, viene spogliato delle serpi e riposto al suo interno. Alle 14 la cerimonia finisce”. Come tutte le feste di paese, si esibisce un’orchestra per allietare la serata di tutte le persone presenti. Un performance “di contorno”, chiarisce Valter Chiocchio, 42 anni, che insieme ad altri coetanei contribuisce affinché questa tradizione sopravviva. “Per noi è sempre stata più importante del Natale – racconta Chiocchio – un momento di riconciliazione con le persone che vivono e lavorano fuori. È un’esperienza unica: vedi la gente piangere!”. Un’estasi collettiva dietro la quale, secondo Chiocchio, si nascondono “devozione al santo e senso di appartenenza al luogo”.

Karl Mancini-2015

Un tesoro da custodire – Il valore della Festa dei serpari è testimoniato anche dall’interesse suscitato in chi non è del luogo. Nell’arco dei decenni, sono stati scritti articoli sul New York Times e sulla Bild, e numerosi servizi sono stati realizzati su televisioni giapponesi, francesi e tedesche. “Abbiamo un libro di un russo che è venuto a Cocullo nel 1905 per assistere al rito”, ricorda Volpe. A partire dal 1976, la comunità scientifica si è avvicinata a questo culto, grazie all’interessamento del famoso antropologo, Alfonso di Nola (1926-1997), che su questa e altre tradizioni scrisse Aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana (Bollati Boringhieri, 1976). Lo studioso, abituale frequentatore di Cocullo, interpretò le molteplici sfaccettature della celebrazione, sottolineando che la tradizione funge da vincolo tra le generazioni e da rito d’iniziazione all’esperienza della montagna. “Nella folla che partecipa alla festa – spiegò – si realizza la collettivizzazione del gruppo costituito da cocullesi e abruzzesi dispersi nelle varie attività montane, economiche, profane e nella sofferenza della migrazione”. “Tornando realizzano l’unità del gruppo che dovrebbe essere, presso di noi, un elemento fondamentale dell’esistenza, proprio perché ricostituisce, all’interno di certi valori del gruppo (S. Domenico, i serpenti ecc.), il volto dell’uomo”, chiarì l’antropologo.

Articolo Precedente

Se il futuro non promette ma minaccia, allora rischiamo la schiavitù

next
Articolo Successivo

Meraki, l’ecovillaggio sulla Via degli Dei dove si viaggia stando fermi

next