In crisi economica perché fiaccata dalle sanzioni e con la propria credibilità internazionale ai minimi termini, la Russia sta fronteggiando anche una vera e propria fuga di cervelli. Che, nel più classico dei circoli viziosi, non farà altro che aggravare ulteriormente i problemi demografici ed economici interni. I primi casi isolati sono diventati nel corso delle settimane sempre più numerosi e, anche se non si può parlare di “esodo”, il flusso di cittadini russi che stanno abbandonando il Paese si sta ingrossando giorno dopo giorno. Definiti da Putin, seppur non direttamente, “feccia” e “traditori”, sarebbero finora circa 200mila i fuoriusciti che si sono più o meno temporaneamente insediati all’estero. Una situazione che sta già creando i primi grattacapi in alcuni dei Paesi d’arrivo.

Con le opzioni limitate dal bando dei Paesi europei dei voli da e per la Russia, chi vuole fuggire dal regime putiniano sta prendendo in considerazione alcune mete alternative, a cui si guarda soprattutto per la facilità di accesso (in sostanza il fatto che non serva il visto) e le prospettive d’inserimento. Al momento questo particolare gruppo è composto da, in ordine sparso, Georgia, Armenia, Turchia e alcune Repubbliche dell’Asia Centrale. Difficile fare una classifica, perché spesso non sono disponibili dati ufficiali, ma pare che finora in 14mila siano arrivati a Istanbul, ripercorrendo il percorso di altre migliaia di russi che trovarono rifugio nella città sul Bosforo dopo la presa del potere da parte dei Bolscevichi.

Stando ad alcune testimonianze, sembra che anche l’Armenia, e in particolare la sua capitale Yerevan, sia uno degli approdi preferiti. Se prima del conflitto a essere ufficialmente registrati nel Paese erano circa 3-4mila lavoratori russi, attualmente a risiedere in loco sarebbero circa 20mila persone provenienti soprattutto da Mosca e San Pietroburgo. L’Armenia è una meta apprezzata anche per la minore ostilità nei confronti dei russofoni di quella che questi ultimi possono ad esempio incontrare in Georgia, dove comunque si sono registrati migliaia di arrivi, Paese che solo pochi anni fa ha avuto modo di toccare con mano la brutalità di Putin. Numeri decisamente minori, ma molto significativi, quelli che sta registrando anche la Finlandia, il cui territorio è raggiungibile via treno in poche ore dalla parte occidentale della Russia. A pesare in questo caso la vicinanza geografica – i due Paesi condividono un confine di oltre 1.300 chilometri – e la positiva accoglienza da parte della popolazione locale.

Alcuni governi dello spazio post-sovietico si stanno addirittura attrezzando per favorire l’afflusso di capitale umano, senza disdegnare quello legato agli investimenti. È il caso ad esempio dell’Uzbekistan che sta approntando un visto lavorativo e un percorso per ottenere la residenza facilitati e pensati per i lavoratori e gli imprenditori russi e bielorussi del settore tecnologico. Una simile proposta è stata avanzata anche in Kirghizistan, segno che la fame di competenze e flusso di denaro è particolarmente forte nella regione. D’altronde a lasciare la Russia sono soprattutto giovani professionisti del mondo digitale, in grado di continuare a operare da remoto senza ripercussioni sulla loro attività.

Se, da un lato, i vantaggi per le asfittiche economie dell’Asia Centrale potrebbero essere notevoli, dall’altro l’afflusso di persone con un potere d’acquisto notevolmente più elevato della media regionale sta iniziando a distorcere il mercato locale. Come riportato da Radio Free Europe/Radio Liberty, l’arrivo in Uzbekistan di migliaia di cittadini provenienti dalla Federazione, accompagnato al ritorno in patria dei migranti locali senza prospettive in Russia, sta gonfiando le valutazioni del settore immobiliare. Non solo, anche alcuni operatori russi del comparto starebbero guardando alle città più dinamiche della regione per diversificare i propri investimenti, con un ulteriore effetto al rialzo. Nella capitale uzbeca, Tashkent, alcune testimonianze riportano un aumento degli affitti e dei prezzi di acquisto di abitazioni pari circa al 15% in poche settimane. In sé non una crescita così vertiginosa, ma che si registra in contesti economici già particolarmente indeboliti dalle sanzioni, dalla svalutazione delle monete locali e dal crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Ripercussioni che potrebbero ulteriormente aggravarsi nei prossimi mesi.

La fuoriuscita di decine di migliaia di persone non sembra invece al momento preoccupare particolarmente le autorità russe. Anzi, il blocco ufficiale delle attività in Russia di Facebook e Instagram, appena confermata da un tribunale di Mosca, rischia di rendere ancora più complessa la situazione interna. Non certo per il mancato utilizzo individuale degli utenti, ma per il fatto che ormai sono considerati da molte aziende come canali di business o come semplici mezzi per farsi pubblicità. Non è un caso, infatti, che ad abbandonare la nave putiniana in fase di affondamento siano anche numerosi manager russi delle multinazionali con sede nel Paese. Centinaia di queste, attive nei settori più disparati, hanno sospeso la propria attività nelle ultime settimane, impoverendo ulteriormente l’economia del Paese.

Per quanto ferocemente Putin possa attaccare chi lascia la Federazione, il trend demografico del Paese gioca contro di lui: tra il 2020 e il 2021, a causa soprattutto del Covid, la Russia ha subito il più grande declino di popolazione non legato a una situazione di conflitto della sua storia, perdendo complessivamente quasi 1 milione di abitanti. Una situazione a cui l’inquilino del Cremlino avrebbe potuto cercare di ovviare provando a rendere il proprio Paese più attrattivo sia per le maestranze del Caucaso e dell’Asia Centrale che per i talenti internazionali. Non certo costringendo alla fuga decine di migliaia di giovani professionisti desiderosi di un futuro più promettente.

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