La guerra in Ucraina semina anche effetti sull’ambiente. Alcuni diretti e immediati, altri indiretti. In ogni caso si rischia di pagarne il prezzo in un futuro non troppo lontano. Perché i governi modificano le agende politiche in nome di vere e presunte necessità emerse in seguito al conflitto. E questo significa dietrofront e rallentamenti su molte battaglie, come quelle per l’agricoltura sostenibile, contro la deforestazione o per la decarbonizzazione energetica.

Per uscire dalla dipendenza del gas russo, il governo Draghi ha prospettato soluzioni quali l’apertura delle centrali a carbone e l’aumento della produzione nazionale di gas, anche se per aiutare le famiglie alle prese con il caro bollette (precedente al conflitto), al contrario degli altri interventi approvati finora, il Decreto Energia prevede un prelievo sugli extra-profitti dei big della produzione e della distribuzione di energia da fonti fossili. Nel frattempo, si propone di posticipare l’entrata in vigore della nuova (e già poco ambiziosa) Politica agricola comune (Pac), mentre le lobby europee esercitano pressioni per sospendere gli obiettivi contenuti nella strategia Ue sulla Biodiversità e nella Farm to Fork. In Italia si chiede di aprire i porti a mais proveniente da aree dove vengono coltivate varietà Ogm o con limiti per i pesticidi meno stringenti rispetto a quelli europei. E, dato che le scorte di olio di girasole proveniente dall’Ucraina stanno terminando, l’industria potrà utilizzare l’olio di Palma. Anche se, insieme alla necessità di fare posto ai pascoli per la produzione di carne, sono proprio le coltivazioni di soia, palma da olio, cacao e caffè la causa dell’80% della deforestazione mondiale.

Gli effetti diretti della guerra Tutto questo si somma alle conseguenze dirette del conflitto, come il costo ambientale della produzione e dell’utilizzo di carburanti, energia e armi da parte degli eserciti, dei tetti in eternit fatti saltare in aria, degli incendi. Insomma, dell’inquinamento già provocato e dei rischi ecologici conseguenti. Solo nella regione del Donbass si contano 900 stabilimenti industriali, tra cui 248 miniere per lo più fatiscenti (140 di carbone), 177 siti chimici ad alto rischio, inclusi 113 dove si usano materiali radioattivi, e le vecchie miniere di carbone abbandonate stanno inquinando i bacini idrici. Il resto dell’Europa, intanto, cerca soluzioni molto poco sostenibili per tamponare le emergenze. In primis quella relativa alle materie prime agricole che arrivavano da Ucraina e Russia.

Il dietrofront su Pac e strategie europee – La nuova Pac dovrebbe entrare in vigore dal 2023, ma il ministro delle Politiche Agricole, Stefano Patuanelli punta a “posticipare o rivedere i piani strategici nazionali in questa fase emergenziale, sospendendo le misure che limitano la produzione, consentendo l’utilizzo i superfici a riposo e pascoli, introducendo un contributo flat ex novo per tutte le superfici agricole utilizzate”. Il Copa-Cogeca (federazione europea di lobbying che comprende le associazioni di agricoltori) invoca la sospensione degli obiettivi europei per rendere più sostenibile il settore contenuti nella strategia europea sulla Biodiversità e nella Farm to Fork. A rischio c’è la prevista destinazione di piccole percentuali (10% o 4%, a seconda delle misure interessate) di aree agricole a elementi naturali per tutelare la biodiversità.

Vere e false emergenze In Italia, invece, l’Associazione nazionale cerealisti (Anacer) ha scritto a Patuanelli e al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, lamentando le conseguenze del “blocco dei cargo provenienti dal mar Nero e dal mar d’Azov” e la mancanza di alternative. In particolare, il problema si pone per il mais che vede l’Ucraina secondo fornitore per l’Italia (dopo l’Ungheria), con una quota di circa il 20% dell’import. Fra gennaio e novembre dello scorso anno l’Italia ha importato dall’Ucraina circa 733mila tonnellate di cereali, prevalentemente proprio mais (600mila tonnellate). L’associazione ha chiesto di consentire, per un periodo di sei mesi, l’import di mais da Stati Uniti e Argentina, a oggi limitato dalla legislazione comunitaria dato che negli Usa si coltivano varietà Ogm non autorizzate in Ue, mentre in Argentina i limiti massimi dei residui di pesticidi sono meno stringenti rispetto a quelli europei.

Diverso il discorso degli altri cereali. Da un’analisi sugli impatti della guerra di Ismea emerge che l’aumento dei prezzi dei cereali in generale (quindi anche del grano) è precedente e solo parzialmente imputabile al conflitto. Perché, come spiega a ilfattoquotidiano.it Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace “legato a cali della produzione globale dovuti ai cambiamenti climatici (in particolare alla siccità che ha colpito il Canada, abbattendo la sua produzione di grano duro del 60%), agli aumenti dei costi energetici e a dinamiche speculative, trattandosi di beni quotati in borsa”. Russia e Ucraina, infatti, sono importanti esportatori di cereali e semi oleosi “ma con un ruolo limitato nella fornitura totale di cereali dell’Unione Europea” mentre il loro grano arriva soprattutto in Africa, Asia e Medio Oriente. Esistono diverse stime sulla percentuale di frumento, fra quello tenero e duro, proveniente da Russia e Ucraina e importata in Italia, ma non si supera il 5%. A fornire grano all’Italia sono Francia (19,9%), Canada (14,4%) e Ungheria (13%). Di fatto, se c’è un problema arriva proprio da Budapest che ha prima sospeso le esportazioni di cereali, consentendo poi di far partire i carichi di grano tenero e mais già acquistati.

A cosa servono davvero i cereali (e non solo): il nodo allevamenti Detto questo, in Europa circa il 60% dei cereali che viene utilizzato è destinato alla zootecnica, quindi a nutrire animali, mentre solo il 24% è usato per il diretto consumo umano. Come spiega Coldiretti, la carenza di mais mette a rischio “un allevamento su quattro” e fa aumentare i prezzi della carne. E non è un caso se nella bozza della legge europea sulla deforestazione della quale si discute in questi mesi mancano proprio i riferimenti al mais, oltre che alla carne di maiale e di pollo. Nonostante gli impatti di queste produzioni. Tra il 2015 e il 2020, il mondo ha perso circa 51 milioni di ettari di foreste, un campo da calcio ogni due secondi, soprattutto a causa dell’espansione dell’agricoltura industriale.

Le pressioni della corsa alle materie prime sulle foreste La pressione si è fatta sentire anche dall’inizio del conflitto. Dopo la sospensione di forniture di cereali dall’Ucraina, dall’Ungheria e anche dalla Bulgaria, molte aziende agricole hanno iniziato ad acquistare il fabbisogno per i mangimi in Sudamerica (Argentina e Brasile sono tra i maggiori produttori mondiali di soia) con conseguenze sul livello dei prezzi. Una pressione, quella legata a diverse materie prime, che secondo gli esperti è destinata ad aumentare, ma che l’Amazzonia non può permettersi: a febbraio la deforestazione ha toccato un nuovo record, con 199 chilometri quadrati scomparsi. Ora l’Argentina ha bloccato le esportazioni di farina e olio di soia. E se da una parte c’è molta attenzione al mangime che rischia di non arrivare agli allevamenti, dall’altra non sembra essercene altrettanta per il benessere animale. Non solo a livello europeo, con il possibile rinvio di una Pac già poco ambiziosa. ma anche in Italia. Le quattordici associazioni aderenti alla ‘Coalizione contro le #BugieInEtichetta’, di cui fanno parte anche Animal Equality, CIWF Italia Onlus, Essere Animali e Lav, segnalano che “il ministero della Salute e quello delle Politiche Agricole si apprestano ad approvare un decreto che istituisce un’etichetta ‘Sistema di Qualità Nazionale Benessere Animale’ fuorviante”, a discapito di animali, ambiente e consumatori. Il tutto con fondi di Pac e Pnrr.

Le soluzione per l’indipendenza dal gas – Altra questione molto delicata è quella dell’indipendenza dal gas russo. La Commissione Ue intende dare “priorità alla diversificazione delle importazioni di gas fossile e all’importazione di altri combustibili come idrogeno e biogas” escludendo la graduale eliminazione dell’uso di gas fossile.

Diverse le soluzioni prospettate dal governo Draghi, alcune delle quali stroncate sul nascere: dall’aumento della produzione nazionale di gas fossile, all’approvvigionamento da altri Paesi, dalla possibile ripartenza di gruppi termoelettrici a carbone a quelli a olio combustibile, dal raddoppio di gasdotti operativi fino alla realizzazione di nuovi rigassificatori. E mentre finora per aiutare le famiglie e le imprese con il caro bollette, il governo aveva previsto di tassare gli extraprofitti nelle rinnovabili, un segnale diverso è arrivato invece con il decreto Energia. Questa volta le misure dovrebbero essere finanziate con un prelievo sugli extraprofitti delle compagnie che producono e distribuiscono energia da fonti fossili.

La minaccia nucleare, altro che deterrente Ma tra le soluzioni c’è anche l’energia dell’atomo. Nonostante o, forse, con un’occhio alla minaccia nucleare. Draghi ha detto che “l’impegno tecnico ed economico è concentrato sulla fusione a confinamento magnetico”. Solo che in Europa, se non ci sono intoppi, il reattore Iter si allaccerà alla rete non prima del 2035. E si parla di previsioni. Al momento, l’unica cosa certa, è che la costruzione è stata momentaneamente sospesa. Con buona pace dell’emergenza energetica. Mentre sulle già disponibili fonti rinnovabili dallo scorso autunno il Governo ha sbloccato 1,4 gigawatt, lontani dagli 8 GW all’anno necessari per rispettare gli obiettivi Ue e anche da quanto chiede Elettricità Futura di Confindustria: “Sbloccare entro giugno 60 gigawatt di nuovi impianti” da realizzare in tre anni. Servirebbero a risparmiare 15 dei 29 miliardi di metri cubi di gas che l’Italia ha esportato dalla Russia nel 2021.

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