Il 17 marzo del 1992 i sudafricani bianchi si recavano alle urne per votare al referendum che avrebbe sancito la fine dell’apartheid con il 68,73% dei sì. Trent’anni fa. Trent’anni che sono nulla, rispetto a una vicenda che sa di Medioevo. Eppure, dopo tre decenni, mi ritrovo a domandarmi quanti anni, quanti decenni serviranno per eradicare davvero dalle nostre menti la presunzione di essere i migliori. Non lo ammettiamo, certo, spesso non ne siamo nemmeno consapevoli, ma quanti dei nostri atti, dei nostri pensieri, delle nostre decisioni portano ancora il peso dei secoli di dominio coloniale? Negli Stati Uniti è ancora necessario lottare con slogan che ricordano che le vite dei neri hanno importanza quanto quelle dei bianchi. E qui da noi, nella civilissima Europa dilaniata oggi da un conflitto fratricida, ancora ci troviamo a distinguere tra profughi di serie A e di serie B.

Da giorni questo pensiero mi lacera, contesa anche io tra la drammatica evidenza della necessità di venire in soccorso di chi fugge dai bombardamenti e la rassegnata consapevolezza che le altre guerre (quelle che da vent’anni cerco di raccontare) producono altri profughi, regolarmente respinti come non avessero gli stessi diritti. Poi, ieri, ascoltando la radio, sono stata colpita dal pensiero espresso dal sindaco di uno dei tanti comuni che si stanno dando da fare per l’ospitalità (mi perdoni, non ne ricordo proprio il nome!): diceva che quanto sta accadendo potrà segnare un punto di svolta nella nostra idea di accoglienza, nella percezione stessa che noi italiani, noi europei abbiamo di chi fugge da una guerra. Mi piace. Voglio essere propositiva e sperarlo anche io. Se ora apriamo a chi ne ha bisogno – come è giusto e sacrosanto –, un domani sarà ben difficile giustificare nuove chiusure… Anziché lamentarmi o accusare, dunque, voglio auspicare che davvero oggi, mentre apriamo le nostre frontiere e le nostre case a persone in fuga, guardandole negli occhi, possiamo davvero allargare le maglie della nostra comprensione e della nostra capacità di condivisione ed empatia. Lasciando definitivamente alla cupa storia del Novecento tutta l’eredità di qualunque tipo di segregazione consapevole o inconsapevole.

Un altro pensiero voglio aggiungere, traendolo dalla ricorrenza che oggi ci porta a ricordare il Sudafrica dell’apartheid: al referendum si giunse dopo un percorso di crescente isolamento internazionale iniziato addirittura nel 1961, con l’espulsione del paese dal Commonwealth, proseguito nel 1964, con l’esclusione del Sudafrica dalle Olimpiadi e culminato con le sanzioni economiche che costrinsero il governo del presidente de Klerk a capitolare: nel 1985-6 la Comunità Europea varò l’embargo sul commercio delle armi, la cessazione delle esportazioni di petrolio e degli scambi culturali e sportivi e poi un embargo sui nuovi investimenti.

Nel 1986 anche gli Stati Uniti (superando, con un voto del Congresso e del Senato, il veto posto dal presidente Reagan) stabilirono pesanti sanzioni economiche: stop alle importazioni di acciaio, ferro, uranio, carbone, tessuti e materie prime agricole; divieto al governo sudafricano di detenere conti bancari statunitensi; bando della South African Airways dal suolo degli Stati Uniti; divieto assoluto di nuovi aiuti, investimenti e prestiti. Il paese, strangolato dalle pressioni internazionali, ma soprattutto dalle sanzioni, non poté che arrendersi. Ma ci vollero quattro anni per arrivare alla scarcerazione di Mandela e sei per giungere al referendum che ricordiamo oggi.

Certo, da allora il mondo è cambiato: l’interconnessione e l’interdipendenza globali fanno oggi sperare che chi viene sottoposto a sanzioni drastiche abbia molto meno tempo a disposizione per cedere. Anche se è una superpotenza. Nel mondo globalizzato, anche i giganti hanno i piedi d’argilla.

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