Il 18 febbraio Il resto del Carlino ed altre testate – per lo più locali – davano conto dell’incontro avvenuto a Venezia tra Luca Zaia (presidente della regione Veneto) e Stefano Bonaccini (presidente Emilia Romagna). Due uomini forti – anzi fortissimi – dei rispettivi partiti, che hanno dato vita, in quell’occasione, a “un’istanza che non ha colori politici, ma viene dai cittadini” per realizzare l’autonomia differenziata, quella che Gianfranco Viesti con una (in)felice formula ha definito “la secessione dei ricchi”.

Pochi sanno di cosa si tratta, dal momento che la gran parte della stampa e dei media tace ostinatamente su un problema che – qualora l’autonomia venisse realizzata – investirebbe l’intera popolazione italiana, mentre governo e regioni secretano gli atti. Il Titolo V della Costituzione, che venne riformato nel 2001 (dando vita a ciò che il compianto prof. Gianni Ferrara chiamò “un concentrato di insipienza giuridica, oltre che politica”), prevede la possibilità che le regioni a statuto ordinario chiedano potestà legislativa esclusiva su un numero impressionante di materie – fino a 23 – fondamentali per la vita di cittadine e cittadini: istruzione, sanità, infrastrutture, beni culturali, ricerca, sicurezza sul lavoro, ambiente, solo per citarne alcune. Se l’operazione andasse a buon fine e tutte le regioni ricorressero a questa possibilità, ogni regione avrebbe – ad esempio – la propria scuola o la propria gestione del territorio, emancipandosi definitivamente dalle norme generali che attualmente sono in capo allo Stato che, in quanto tali, definiscono in termini di eguaglianza i diritti che è compito della Repubblica garantire.

Sappiamo già quanto questa aspirazione prevista dalla Carta abbia avuto una realizzazione purtroppo parziale e comunque non sufficiente a garantire diritti uguali per tutte e tutti: il turismo sanitario che dalla Calabria si muove alla volta della Lombardia ne fa testo, così come la privatizzazione della stessa sanità lombarda ha mostrato i suoi limiti durante la prima fase della pandemia, che ha visto in quella regione un numero sconvolgente di decessi. Tre regioni hanno già compiuto passi importanti verso l’autonomia differenziata: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che chiedono rispettivamente 23, 20 e 16 materie e hanno già siglato le pre-intese con il governo che danno avvio al percorso. Sulla bulimia di queste regioni, sulla volontà di fare parte a sé, scollandosi sia economicamente che politicamente dalla Repubblica (e dalla “zavorra del Sud”), chiedendo privilegi per i propri amministrati parla chiaro Luca Zaia, il più famelico di tutti (“Vuol dire che ognuno può chiedere l’autonomia che gli spetta: c’è la facoltà di chiedere da una materia a 23 materie come prevede la Costituzione”); che le materie in vendita nel “supermarket delle competenze”, come lo chiama Massimo Villone, le vuole tutte.

E’ per questo motivo che le dichiarazioni dei due presidenti di regione (“Noi i compiti per casa li abbiamo fatti e abbiamo portato proposte costruttive, penso che saranno premianti le prossime settimane. Siamo in attesa che Draghi batta un colpo”, rivendicando peraltro una piena sintonia) fanno paura e scandalizzano: un vero e proprio patto tra rappresentanti di due partiti che – nonostante la condivisione del “governo tecnico” – non nascondono la propria reciproca avversione e (almeno sulla carta) dovrebbero rappresentare istanze difficilmente compatibili; e invece si trovano a condividere il sogno leghista dell’autonomia delle regioni. La preoccupazione è aumentata dalle dichiarazioni della ministra Gelmini, che da tempo annuncia l’imminente presentazione alle Camere di un ddl “legge quadro” sull’autonomia differenziata.

Ma qualcosa sta cambiando, in uno scenario – lo ripeto – in cui (complice gran parte della stampa) le istituzioni di questo Paese hanno potuto secretare il processo, impedendo a cittadine e cittadini di conoscerne i contenuti e valutarne i pericoli eversivi. Dopo l’importantissima dichiarazione del più grande sindacato della dirigenza medica e sanitaria – l’Anao – che ha ribadito il suo netto no alla autonomia differenziata, il 5 marzo il sindaco di una città importante come Bologna – Matteo Lepore – ha affermato: “Io non sono d’accordo con l’autonomia differenziata: dopo il Covid la sanità pubblica nazionale deve essere la priorità e invece vedo troppa confusione politica e istituzionale. Occorre che ognuno torni a fare il proprio compito: la Costituzione italiana è molto chiara; abbiamo già tanto da fare così, e bisogna farle bene”.

Sono parole importanti a pochissimi giorni dal “Draghi batta un colpo” pronunciato dai presidenti di regione. “Dividere nord e sud è un errore, dovremmo metterci insieme a Milano e Napoli per realizzare cose importanti”. Lepore sottolinea peraltro la funzione che i sindaci possono (e dovrebbero) avere per dar vita ad un “‘disegno’ strategico nazionale” per realizzare il quale occorre che “i sindaci vadano a braccetto, lavorino insieme, sennò rischiamo che le cose si decidano altrove mentre noi giochiamo a tresette pensando che una potestà normativa sia in un ente o in un altro”. Niente autonomia differenziata, dunque, ma “una struttura nazionale più semplice che lavori con le imprese private per vincere alcune sfide industriali: questa, del resto, è la storia dell’Emilia-Romagna”. Parole controcorrente che – ci si augura – vengano recepite da altre amministrazioni comunali che dal regionalismo differenziato non avrebbero che da perdere; parole che richiamano al tema dell’unità della Repubblica, l’unica garanzia di diritti esigibili per tutte e tutti, ovunque si sia nati, ovunque si risieda.

Dal prima gli italiani al prima gli emiliani, i veneti, i lombardi il passo è cortissimo.

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