di Stefania Rotondo

Sabato 5 marzo 2022. L’area antistante la Basilica di Santa Sofia a Roma è straripante di ogni ben di Dio. Derrate alimentari e indumenti per adulti e bambini, medicinali, prodotti per la cura della persona, coperte, materassini gonfiabili. Tutta roba che tanti romani stanno portando dal 24 febbraio scorso in questo luogo sacro di aggregazione della comunità ucraina della città. Viene catalogata, smistata, impacchettata, da ucraini ma anche da tanti volontari italiani. Tutto coordinato dalla protezione civile che ha allestito, antistante il sagrato, tende dove sono stipate centinaia di scatoloni. Su ognuno è attaccato un foglio bianco. Sono stampate la bandiera ucraina e quella italiana.

Tra poco, penso, questi scatoloni partiranno. Arriveranno nelle città e nelle campagne ucraine bombardate. Sotto la metropolitana di Kiev, nei rifugi rimediati di Mariupol, di Kherson, di Kharkiv. Città delle quali fino a qualche giorno fa ignoravo l’esistenza. Tranne Kiev, che la mia generazione ricorda tristemente perché a pochi chilometri dalla centrale di Chernobyl, e per i più colti per la Cattedrale di Santa Sofia, patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Il sagrato della Basilica e il giardino che lo cinge rigurgitano di umanità. Sono appena arrivata con le mie tre buste. Qualche pacco di pasta, caffè, pannolini per bambini, qualche medicinale. Di fronte alle montagne di cose lasciate dai romani mi pare di aver comprato poco.

Ciò che consegno in mano a una donna ucraina è solo una goccia nell’oceano. Mi ritrovo ad aiutare uomini e donne a dividere gli alimenti per categorie. A impacchettare. Una donna ucraina mi chiede qualcosa nella sua lingua. Comprende che sono italiana. Mi chiede scusa, ha pensato fossi ucraina. Io rispondo che oggi sono ucraina, e lo sarò pure domani e dopodomani. Lei mi dice grazie. A un tratto tutta quell’umanità stipata in pochi centinaia di metri quadrati mi pare la risposta giusta alle bombe di Putin. Putin il cattivo. E mi sento parte di essa.

Eppure avverto che questi donne e uomini con i quali ora lavoro per un obiettivo comune provano verso di me sensazioni contrastanti. Oltre che un’indubbia gratitudine per la generosità dimostrata, la consapevolezza che essa sia frutto anche di una sorta di un mio senso di colpa “occidentale”. E hanno ragione. Mentre impacchetto, mi ritorna alla mente una poesia di Halyna Kruk, poetessa ucraina, recitata al Parlamento europeo nel 2014, all’indomani dell’invasione della Crimea da parte dell’Orso. “Perdonali, Europa, non essere sorpresa. / Noi siamo come animali qui./ Siamo cacciati dalle pallottole come lupi rabbiosi”. All’epoca non ne capii il significato.

Continuo a impacchettare. Mentre sento parlare in ucraino, mi pare di capirlo. Mi rimbombano in testa le parole di un ragazzo ucraino intervistato in tv. “Combatterò per l’Europa. Per la libertà”. E io invece che schifo l’Europa per ogni cosa… penso. Adesso, nell’osservare i miei compagni europei, capisco di fare i conti con un pregiudizio, che fa molto comodo a Putin il cattivo.

Ho sempre pensato all’Ucraina come a un paese povero. Contadini affamati, Chernobyl, degrado. Che l’Ucraina fosse solo un pezzo dell’ex Unione Sovietica. E invece ora scopro che esiste da secoli una lingua, uno stato, una cultura ucraini. Ora comprendo i versi della poetessa Kruk. Le idee non sconfiggono le armi, ma hanno un peso nei conflitti. L’Ucraina è una nazione autentica, una comunità, non perché occupa un suolo ma perché ha un’identità. Noi occidentali avremmo dovuto aiutarli molto prima, mettere da parte i nostri interessi. Ma non l’abbiamo fatto. Anzi. Abbiamo continuato a fare affari con l’Orso. Questa terra, concimata nei secoli da corpi di nemici mentre tentavano di occuparla, schiacciata dagli interessi occidentali, cinesi, israeliani e turchi, non vuole essere neutrale. Vuole essere Europa. E ora io in mezzo a loro mi sento meno europea, a confronto.

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