di Cristian Pagliariccio, psicologo

Competenze non cognitive” è un concetto usato da anni a livello internazionale, anche se definito in diversi modi e difficilmente misurabile. Solo per fare un esempio, nel 2016 l’Unesco ne ha parlato in un documento che, partendo dall’educazione, ha lo scopo di incoraggiare riflessioni su un futuro sostenibile per tutte le persone (Non-cognitive skills: Definitions, measurement and malleability).

Data l’importanza del concetto, di recente la Camera dei Deputati ha approvato l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive a scuola. Per i prossimi tre anni scolastici, le scuole di ogni ordine e grado avvieranno lavori sulle competenze non cognitive. Sono previsti corsi destinati a docenti che, a loro volta, dovranno sviluppare sperimentazioni destinate a studenti e studentesse. Questa novità ha alimentato reazioni contrapposte che vanno dal forte entusiasmo alle critiche accese. Molto potrebbe dipendere dal testo approvato che risulta essere un po’ confuso, proprio rispetto alla presentazione delle competenze non cognitive. Poiché la novità è importante e rischia di fallire, se non compresa, in questo articolo mi preme fare un po’ di chiarezza su un aspetto: cosa sono le competenze non cognitive?

Il concetto di competenze non cognitive è come un grande raccoglitore. Ingloba tutti gli aspetti legati ad atteggiamenti emotivi e relazionali (come ad esempio: sapersi rilassare senza alcol o droghe; collaborare per un obiettivo comune, inclusa la salvaguardia del pianeta; dissentire senza picchiare o uccidere; parlare in pubblico; fare scelte funzionali per la propria vita; motivarsi; ecc.). L’Unesco ne individua tre particolarmente importanti: perseveranza, autogestione e competenze sociali, mettendone in luce pregi e limiti. Da un punto di vista teorico, il concetto si differenzia in modo netto dai contenuti delle materie e da tutto ciò che è collegato alla sola razionalità. Da un punto di vista pratico, invece, la questione è ben diversa.

Competenze cognitive e non cognitive interagiscono insieme ed è quasi impossibile distinguerle nella vita reale. Tutte le competenze non cognitive coinvolgono la cognizione. Ad esempio, per esprimersi davanti a una platea in modo pertinente, bisogna sapere ciò che si vuol dire. Anche il Grammelot usato da Dario Fo, basato su parole senza senso, seguiva un filo logico. Tutte le prestazioni cognitive sono rese possibili grazie alle competenze non cognitive. Ad esempio, per imparare la matematica bisogna esser disponibili ad apprenderla, prestando attenzione ed esercitandosi per un tempo adeguato. Oppure, è necessario superare la frustrazione dell’errore, senza arrendersi dopo il primo sbaglio.

Anche quando non se ne parlava, dunque, le competenze non cognitive facevano (da sempre) parte della scuola, ma erano il più delle volte lasciate al caso o alla sensibilità di alcune/i docenti. Pertanto, l’adozione formale di una visione basata sulle competenze non cognitive richiede alla scuola almeno tre cose:

1) essere realmente cosciente di questa inscindibilità tra cognizione e non cognizione, anziché ignorarla, per attuare azioni capaci di alimentare il benessere dei minori e della società (migliorando la motivazione ad apprendere delle persone, la loro capacità di gestione emotiva, ecc.);

2) garantire un lavoro esperto equo, da nord a sud;

3) modificare le tradizioni, per far sperimentare quotidianamente a studenti e studentesse numerose situazioni che abbiano un impatto positivo sulle loro vite, a livello emotivo e relazionale, oltre che di apprendimento contenutistico.

È una visione completamente nuova, perché gran parte di ciò che accade oggi nell’istruzione primaria e secondaria si basa su convinzioni passate e settoriali. Con queste convinzioni, in Italia, ci sono le materie e i progetti (contro la violenza, di teatro, di orientamento, contro le droghe, per la navigazione sicura, ecc.). Abbiamo tanti pezzettini. Ci manca una visione olistica che sostenga il benessere dei minori e della società. L’introduzione delle competenze non cognitive può essere un’occasione per aiutare la scuola a prender coscienza del proprio impatto e, ogni giorno, operare affinché esso sia positivo per la vita e il benessere di studenti e studentesse. La speranza è che questa occasione sia valorizzata e non venga sprecata, mantenendo l’insegnamento nozionistico da un lato e i progetti dall’altro, adottando solamente un nome diverso. Psicologi e psicologhe possono aiutare.

Articolo Precedente

Come lavorano i ricercatori emigrati in Germania? L’anticipazione dell’inchiesta di PresaDiretta sui concorsi nelle università italiane

next
Articolo Successivo

Liceo occupato contro le molestie del prof, la studentessa: “Dopo le nostre denunce mi ha ha detto: avrei dovuto farti di peggio”

next