Concavo e convesso. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan sulla questione ucraina sta giocando una partita tutta sua e, in parte, anche diversa rispetto a quelle del passato, quando si è distinto per una visione integralista più che tattica (ovvero in attacco e mai in difesa). Pur essendo un membro rilevante della Nato, seconda potenza per numero di militari, da settimane cerca di ritagliarsi un ruolo da mediatore tra Kiev e Mosca. Tanto da cercare di organizzare il primo incontro tra i due leader dallo scoppio della crisi ad Ankara. L’obiettivo è, come fatto in Libia (meglio) e in Siria (peggio), essere player in un’area di crisi dove quest’ultimo concetto può rapidamente trasformarsi in opportunità. È il business, accanto alla geopolitica, il metro di valutazione del governo di Ankara.

Rileggendo le parole pronunciate in occasione degli incontri con il presidente russo, Vladimir Putin, e con quello ucraino, Volodymyr Zelensky, spicca da parte di Erdogan un equilibrismo che in altri versanti, come quello armeno, greco, cipriota ed energetico, non si è visto. Quando dice che “gli occidentali non hanno fino ad ora aiutato per la soluzione del conflitto, non hanno fatto altro che peggiorare le cose”, Erdogan apre di fatto alle istanze di Mosca che, è utile ricordare, ha una chirurgica influenza su Ankara. Ha realizzato la prima centrale nucleare ad Akkuyu, che sarà in funzione dal prossimo anno per circa 27,5 TWh all’anno, pari a circa il 9% dell’energia elettrica del Paese. Ha fornito alla Turchia il controverso sistema S-400, che ha causato il no americano alla vendita degli F-35 a Erdogan. È partner nel nuovo quadrumvirato geopolitico con Pechino, Teheran e appunto Ankara. La Russia inoltre ha appena siglato un contratto di 30 anni per la fornitura di gas alla Cina attraverso nuovi gasdotti: 10 miliardi di metri cubi all’anno forniti da Gazprom alla Cnpc.

Il ruolo di mediatore nel dossier ucraino, quindi, da un lato permetterebbe a Erdogan di dare anche un colpo d’anca agli Stati Uniti, leader della Nato (in un momento in cui però Washington sconta il default in politica estera dei Democratici e tende un ramoscello d’ulivo al Bosforo rinunciando al gasdotto Eastmed) e soprattutto di poter essere attivo sull’altra grande questione che tiene banco in due quadranti strategici come quello mediorientale e quello euromediterraneo: il gas. “Possiamo utilizzare il gas naturale israeliano nel nostro Paese e, oltre a usarlo, possiamo anche impegnarci in uno sforzo congiunto per il suo passaggio in Europa”, le parole di Erdogan. Impensabili fino a qualche mese fa, quando inviò le fregate militari nel Mediterraneo orientale per impedire l’arrivo a Cipro della nave Saipem dell’Eni in un fazzoletto di acque che la Turchia rivendica, ma contro il diritto internazionale e i trattati riconosciuti dagli altri Stati come Cipro e Grecia.

Non è una direttrice di marcia del tutto scevra da rischi, quella imboccata dal Sultano, soprattutto guardando ai precedenti in Siria e in Libia. Se a Tripoli Erdogan è riuscito nel suo intento, scalzando anche l’Italia dal “campo centrale” della partita, in Siria si è dovuto gioco-forza fermare, pur incassando l’appoggio Usa contro gli storici rivali curdi. Turchia e Russia hanno relazioni strategiche anche sul fronte azero e nel Nagorno-Karabakh, ragion per cui Erdogan gioca con alcuni interessi nazionali specifici a cui Putin non rinuncerà.

Un altro rischio risponde al nome di lira turca: le condizioni finanziarie del Paese sono una zavorra precisa. Il tasso di inflazione dei prezzi al consumo è balzato al 48,7% annuo a gennaio: si tratta del livello più alto dall’aprile 2002. La responsabilità è nella politica monetaria, permissiva e familiare, che ha determinato il crollo della lira, facendo aumentare il costo della vita. In soccorso dei conti turchi però arriva una più stretta integrazione commerciale con la Cina, stimolata da Mosca. Al netto dei numeri nefasti della lira turca, ecco che Erdogan ha raddoppiato le sue importazioni dalla Cina in un solo biennio.

La diplomazia turca, per quanto esosa e pesante nel bilancio dello Stato, è particolarmente efficiente e rappresenta uno strumento di promozione del made in Turkey come i droni Bayraktar TB2. Basti pensare che nell’ultimo tour in Africa di Erdogan, l’Uav è stato al centro di numerosi incontri, così come nel vertice Erdogan-Zelensky. Ma non solo: così come osservato nei mesi scorsi, è in dirittura di arrivo la nuova strategia turca per riallacciare le relazioni con Israele. È stato lo stesso Erdogan a sgombrare il campo dai dubbi, quando ha osservato di voler riprendere i colloqui con Tel Aviv sull’utilizzo del suo gas naturale e sul suo trasporto in Europa. Un altro passaggio connesso al nuovo ruolo di mediatore a cui Erdogan aspira. Ecco dunque come si distende la nuova strategia erdoganiana, anche per uscire dal cul-de-sac finanziario legato alla crisi della lira turca.

La prossima visita del presidente israeliano Isaac Herzog in Turchia, entro un mese circa, sarà un banco di prova primario per capire come il governo di Israele senza più Benjamin Netanyahu vorrà modificare rapporti che sono da sempre tesissimi, per via della forte relazione tra Turchia e Iran. E soprattutto dirà molto anche su come sarà evoluto, a quel tempo, lo stato delle cose a Kiev.

@FDepalo

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