Magari a qualcuno sì sarà corrugata la fronte la prima volta che abbiamo sentito parlare di infettare apposta dei giovani volontari con il virus del SARS-CoV-2 per capire come si sviluppa la malattia. Allora il mondo era nel pieno della morsa della pandemia e ogni giorno l’annuncio di nuove vittime arrivava come una dolorosa litania numerica. Trentasei giovani privi di immunità, sia naturale che vaccinale, si sono prestati a partecipare a questa sperimentazione clinica, la cosiddetta Sfida Umana, all’interno dell’Unità Speciale del Royal Free Hospital di Londra. Qui le giovani cavie si sono sottoposte al contagio volontario facendosi spruzzare nelle narici la dose minima di una delle prime versioni del virus (precedente all’emergere della variante Alfa) ottenuta da un paziente ospedalizzato. Tenendo attentamente monitorati i volontari per due settimane gli scienziati dell’Imperial College di Londra hanno potuto studiare per la prima volta il decorso completo del Covid-19, osservando quello che accade nel momento preciso in cui una persona è esposta all’infezione, poi durante la comparsa dei sintomi, e fino a quando il nostro corpo riesce ad eliminare il virus.

L’infezione ha dimostrato di essere riproducile e ha comportato solo sintomi lievi sui volontari. Un momento di eureka che, promettono i ricercatori britannici, ci consente non solo di conoscere più a fondo i meccanismi della malattia che negli ultimi due anni ha stravolto le nostre vite ma è il potenziale punto di partenza per lo sviluppo di nuovi vaccini e antivirali. “La cosa fondamentale, prima di tutto, è che il nostro modello di studio non ha creato sintomi gravi o complicazioni cliniche in nessuno dei giovani partecipanti. I pazienti in questa fascia di età – tra i 18 e i 30 anni – sono considerati tra i maggiori veicoli per la trasmissione e lo studio ci ha consentito di fare un’indagine dettagliata dei fattori responsabili per l’infezione e il propagarsi della pandemia. Le scoperte cliniche più interessanti riguardano la brevità dell’incubazione, l’alta concentrazione virale dal naso e l’utilità dei test rapidi (i lateral flow test)” spiega Christopher Chiu, professore del Dipartimento di Malattie infettive dell’Imperial College e principale responsabile dello studio, in corso di revisione (peer review) condotto in collaborazione anche con il Vaccine Taskforce, e il colosso della sperimentazione clinica hVIVO.

Allora come avviene il contagio? I sintomi del Covid si sviluppano in media entro le 42 ore dal contatto con il virus dunque molto più rapidamente rispetto al periodo di incubazione di 5-6 giorni previsto dalle stime esistenti. Gli scienziati britannici hanno analizzato le parti del nostro corpo dopo va ad annidarsi il virus: il contagio comincia a manifestarsi nella gola e poi progredisce per arrivare al picco più alto attorno al quinto giorno, quando l’infezione risulta più abbondante nel naso che non nella gola. Dal naso dunque arrivano potenziali rischi del virus e per questo è importante usare la mascherina in modo da coprire sia questo che la bocca. I test di laboratorio mostrano ancora livelli di infettività al nono giorno dall’inoculazione e fino ad un massimo di 12 giorni, dando informazioni utili per il calcolo della quarantena. Tra i 36 volontari della sfida umana, solo la metà ha contratto l’infezione (nessuno dei quali in modo grave) e nei laboratori di Imperial College i ricercatori stanno ora studiando il perché alcuni sono stati contagiati e altri no. Nessuno dei partecipanti ha mostrato alcuna modificazione a livello polmonare né eventi avversi. In 16 delle giovani cavie il contagio ha dato sintomi da lievi a moderati come naso chiuso o gocciolante, starnuti e mal di gola. Tredici contagiati hanno riportato la perdita temporanea dell’olfatto che per 10 di loro è tornato normale dopo 90 giorni e nei rimanenti tre è migliorato dopo 3 mesi.

Pollice alzato per i tamponi veloci. I tamponi veloci, cosiddetti lateral flow test (LFTs) si sono rivelati un buon indicatore della presenza del virus dal confronto con i test di laboratorio effettuati durante il corso dell’infezione, anche se i LFT sono risultati meno efficaci nel rivelare livelli bassi del virus all’inizio e alla fine dell’infezione. Secondo i ricercatori questo strumento è comunque utile per predire quando un paziente non è più in grado di infettare gli altri e può uscire dalla quarantena. In particolare, farsi il tampone rapido due volte la settimana può consentire la diagnosi prima che il 70-80% del virus attivo venga generato durante il corso dell’infezione. “Anche se i LFT possono essere meno sensibili nei primi due giorni, usarli in modo corretto e ripetuto può avere un impatto notevole sull’interruzione della trasmissione virale” ha detto il Professor Chiu. “I risultati dello studio forniscono informazioni importanti che possono essere usati per prendere decisioni sanitarie importanti su come proteggerci (ad esempio come usare le mascherine e gestire i periodi di isolamento) e come identificare il Covid-19 attraverso. Anche se la sperimentazione si è concentrata su ceppo originario di SARS-CoV-2 e ci sono differenze di trasmissibilità tra questo e le varianti, i risultati sono applicabili anche a Delta e Omicron perché i fattori di protezione sono gli stessi – conclude il dottor Andrew Catchpole, Direttore Scientifico di hVIVO – I dati ci offrono una piattaforma chiara che adesso ci consente di utilizzare il modello della sfida umana per accelerare la sperimentazione di nuovi vaccini o antivirali”.

Lo studio

Articolo Precedente

Leucemia linfocitica cronica, su Nature lo studio che certifica i 10 anni di remissione dalla malattia grazie al trattamento Car-t

next
Articolo Successivo

Lo studio dell’Iss sull’iPhone 12, “in rari casi il magnete può attivare l’interruttore di pacemaker o defibrillatori impiantabili”

next