Era “caporalato grigio”, quasi come quello dei braccianti ma ammantato da una “parvenza di legalità” del rapporto di lavoro senza che nulla cambiasse sotto il profilo delle condizioni di “sfruttamento” e “approfittamento”, agevolate “dall’assenza di una specifica regolamentazione” che continua a riguardare il mondo della gig economy. Una situazione nella quale i riders “sono costretti a lavorare senza alcuna tutela e garanzia, a firmare dimissioni in bianco, a subire sopraffazioni retributive e trattamentali”. Vivendo in questo modo in un “regime di costante ansia” causato dalla “possibilità di perdere il lavoro” nel caso in cui “non si accettassero supinamente le condizioni imposte”. Un “complessivo disegno criminoso” a loro danno e finalizzato al “profitto” nel quale erano “coinvolti sia i manager di Uber che i titolari-gestori delle società intermediarie”.

Non c’erano il sole cocente dei campi di pomodori né le auto stipate di disperati che corrono lungo le strade polverose di campagne all’alba, piuttosto spesso la pioggia battente nel freddo dell’inverno milanese da affrontare pedalando in sella a una bici fino a notte fonda. La sostanza era però la stessa, imbellettata dietro un marchio prestigioso come quello di Uber: migranti, richiedenti asilo, rifugiati politici che pur di lavorare “subiscono ogni sorta di condizioni disagevoli e di vessazione psicologica”, le chiama la giudice per l’udienza preliminare Teresa De Pascale nelle motivazioni della sentenza con cui il 15 ottobre scorso ha condannato in abbreviato a 3 anni e 8 mesi Giuseppe Moltini, uno dei responsabili delle due società di intermediazione – Flash Road City e Frc – coinvolte nell’inchiesta del pm Paolo Storari che nel maggio 2020 aveva portato al commissariamento, poi revocato quasi un anno fa dopo un percorso “virtuoso”, della filiale italiana di Uber, e a luglio 2021 al patteggiamento da parte di Leonardo Moltini e Danilo Donnini, rispettivamente a 3 e 2 anni.

Oltre alle condanne, la giudice aveva deciso anche di convertire il sequestro di circa 500mila euro in contanti in un risarcimento da circa 10mila euro a testa per i 44 ciclo-fattorini parti civili e da 20mila euro per la Cgil. Per la giudice è infatti “indubbia la lesione dell’integrità psico-fisica” dei rider costretti a lavorare “in assenza delle misure minime di sicurezza, sfruttati e degradati, pagati con cifre irrisorie, vincolati al rispetto di standard quantitativi e qualitativi imposti, surrettiziamente trattati come lavoratori subordinati”, ma “privi delle correlative tutele, pur ricevendo – e non sempre – la stipulazione di un contratto di collaborazione occasionale, costretti psicologicamente ad accettare siffatte sfavorevoli e degradanti condizioni di lavoro proprio a causa del proprio stato di subalternità economica, sociale e personale, dovuto alla condizione di immigrati, provenienti da Paesi sottosviluppati, privi di documenti validi per soggiornare sul territorio nazionale, in assenza di valide possibilità di scelta alternative più decorose”.

Era sfruttamento, dunque. Con uno “schema semplice”, come viene definito nelle 205 pagine di motivazioni: il colosso dell’economia digitale “mette l’applicazione, il sistema di pagamento e il marchio al servizio di queste imprese, mentre gli intermediari si occupano delle relazioni con i ristoranti e del rapporto con i lavoratori”. E poiché – aggiunge – “l’offerta di lavoro supera la domanda, per molti aspiranti riders, nonostante i problemi con la lingua o i documenti in regola, nascono dei meccanismi di reclutamento che riducono al minimo il proprio margine di guadagno, per cui, per la maggior parte di essi ‘fare il rider è meglio di niente'”.

Il riferimento è ai ciclo-fattorini entrati nel processo come parti civili, ai quali se ne aggiungono altre decine assoldati negli anni, spesso dallo stesso bacino: residenti nei centri di accoglienza straordinaria e provenienti da zone conflittuali come Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan e Bangladesh, quindi in “condizione di estrema vulnerabilità”, ha sostenuto l’accusa. Ricostruzione che ha trovato piena conferma nella valutazione della giudice: “Il forte isolamento sociale in cui vivono questi lavoratori immigrati – si legge nelle motivazioni – offre l’opportunità di reperire lavoro a bassissimo costo poiché si tratta di persone disposte a tutto per avere i soldi per sopravvivere, sfruttate e discriminate dai datori di lavori senza scrupoli che avvertono in loro il senso di sentirsi costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio e, quindi, disposti a fare non solo i lavori meno qualificati e più pesanti ma anche ad essere pagati poco e male”.

Nelle intercettazioni, “quasi totalmente” auto-accusatorie, scrive la giudice, gli imputati discutevano tra le altre cose delle “mance sottratte” ai rider, delle “ritenute d’acconto non versate”, del “blocco degli account”, delle “punizioni” da “infliggere ai lavoratori” che “non si attenevano alle prescrizioni impartite”, dello “stato di bisogno” dei migranti reclutati. Ed emergevano “elementi chiari ed univoci” riguardo “alle condizioni di sfruttamento praticate”. Il “sistema”, spiega De Pascale, ha un suo “anello fondamentale” nel lavoro ‘a cottimo’ e viene “comandato da padroni pronti a tutto per aumentare i propri profitti”. Era questo il “pretesto” con cui, attraverso a una “consolidata metodica truffaldina”, la Flash Road City ha “volutamente sottratto ingenti quantità di denaro di competenza dei propri collaboratori, sicuramente ignari delle dietrologie poste in essere dagli imputati”. Ed è “indubbio” che le “illegalità compiute” hanno fatto “leva generalmente su un evidente squilibrio del potere contrattuale a sfavore” dei rider.

In questo quadro Moltini e gli altri imputati hanno “indebitamente trattenuto” le mance e la cauzione per le borse, “sollecitato/costretto” i lavoratori a “effettuare consegne anche in caso di malattia”, “violato tutte le norme contrattuali” del lavoro autonomo gestendo di fatto un rapporto che viene definito “subordinato ‘alterato’” per “aver controllato gli orari di lavoro” dei fattorini anche attraverso la “minaccia” – che a giudizio del tribunale si è più volte realizzata – del blocco degli account dell’app che gestiva l’assegnazione delle consegne, abusando in questo modo della “propria posizione di forza” rispetto a quella dei rider. E “numerosi elementi”, sostiene la giudice, portano a ritenere che Uber “fosse pienamente consapevole” dell’attività di sfruttamento, anche per il “ruolo attivo” svolto da ex dipendenti e dipendenti “posti in posizioni apicali”, ad iniziare dalla manager Gloria Bresciani, imputata che ha scelto il rito ordinario e attualmente sospesa dalla società. Un quadro di “evidente agevolazione” quantomeno per “omesso controllo” o di “grave deficienza organizzativa”.

Twitter: @andtundo

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