Dietro l’affaire delle mascherine di Stato, che addensa già molti misteri, c’erano i servizi segreti. Lo ha confermato l’ex premier Giuseppe Conte a Report spiegando che fu lui stesso, nelle fasi iniziali della pandemia, a chiederne l’intervento presso la Protezione Civile. Allo scopo di “evitare le truffe”. Non si sa poi come abbiano operato, perché – a valle di trattative e acquisti poi fatto dallo Stato – è un susseguirsi di sequestri e inchieste che oltre a faccendieri e imprenditori improvvisati han travolto lo stesso commissario dell’epoca Domenico Arcuri, e pure l’ex socio di studio e amico di Conte, l’avvocato Luca Di Donna. Nel suo ufficio, rivela Report, gli 007 c’erano davvero. A fare cosa?

Sembra invece certo, ormai, che i vertici delle Dogane furono avvertiti subito, fin da marzo 2020, che ingenti partite in arrivo dalla Cina stavano inondando l’Italia, ospedali e scuole compresi, corredate da certificazioni false o inesistenti che le rendevano inidonee o addirittura “potenzialmente pericolose” per la salute. L’allerta dell’Antifrode delle Dogane non ha fermato i grandi afflussi sospetti che entrano in circolo nelle strutture pubbliche, nei presidi medici o nei circuiti della vendita al dettaglio. Sui motivi e le eventuali responsabilità continua a girare tutta la storia.

Da inizio pandemia a oggi, ricorda Report, sono state sdoganate oltre 5 miliardi di mascherine. Solo a marzo scorso (e poi a ottobre) la Procura di Gorizia sequestra 800 milioni di pezzi acquistati dalla strutta di Arcuri che, stando alle analisi, non proteggerebbero abbastanza o sarebbero addirittura pericolose per la salute. Su 1,2 miliardi di acquisti, Arcuri avrebbe liquidato direttamente alle ditte cinesi oltre 60 milioni di euro, consapevole che sarebbero serviti a pagare anche le commissioni agli intermediari italiani come l’ex giornalista Rai Mario Benotti e altri mediatori. Arcuri è indagato per peculato e abuso d’ufficio. Fin qui, storia in gran parte nota.

Il pezzo forte dell’ultima puntata della trasmissione di Ranucci (“Mascheropoli”) ruota però attorno a una testimonianza inedita, quella dell’imprenditore umbro Giovanni Buini, che per la prima volta parla apertamente di “tangente”. Non in un luogo a caso, nell’ufficio romano dell’ex collega di studio di Conte. E alla presenza di uomini dei servizi. Il titolare della “Ares Safety Srl” racconta che per ottenere dalla struttura commissariale di Arcuri una commessa da 160 milioni di pezzi a metà del 2020 si era rivolto proprio a Di Donna come a un “facilitatore”, salvo ritrarsi all’ultimo di fronte a una richiesta di provvigione del 5% che per lui era una vera e propria mazzetta.

All’incontro decisivo, racconta l’imprenditore, erano presenti anche due funzionari dei servizi di intelligence. Enrico Tedeschi, ex capo di Gabinetto dell’Aise, e un uomo di sua fiducia dell’ufficio. “Non ho la più pallida idea di cosa facessero lì”. L’ultimo e decisivo incontro avviene il 5 maggio 2020 nello studio di Di Donna. Di fronte a una parcella esorbitante, Buini revoca l’incarico all’avvocato amico di Conte. Il giorno dopo, racconta a Report, i Nas bussano alla sua azienda, quello dopo ancora tocca alla Finanza che riscontra diverse irregolarità. Buini denuncia Di Donna, che viene indagato dalla procura di Roma per traffico di influenze illecite per questa e altre mediazioni che ritengono illecite. Professore di diritto privato alla Sapienza di Roma, quando Conte diventa premier Di Donna avrebbe scritto un sms ai suoi clienti più stretti: “Abbiamo un amico presidente del Consiglio”.

Così Report va da Conte che risponde alle domande, rompendo di fatto la consegna del silenzio dei Cinque Stelle iniziata con la querelle sulla lottizzazione Rai a novembre. Senza negare l’amicizia con Di Donna, l’ex premier dice di “non aver mai coltivato rapporti che potessero generare un’interferenza anche solo potenziale con l’incarico che svolgevo”. Spiega poi che, data la situazione emergenziale, “non ero in condizione di seguire le singole partite, i singoli acquisti, le singole forniture”. Su quelle sospette ammette che “ogni tanto veniva fuori qualche fornitura pagata eccessivamente, ma eravamo in una situazione complicata”. E per evitarlo, spiega, “chiesi ai direttori dell’intelligence di dislocare alcune risorse alla Protezione civile per evitare queste truffe”.

Il rischio era stato illustrato da due circostanziate relazioni dell’Antifrode delle Dogane dove si indicava che il prezzo delle mascherine era quadruplo rispetto alle media europea, ma soprattutto che erano perlopiù corredate di certificazioni false da parte di enti non abilitati/accreditati. Il primo report è del 6 aprile 2020, il giorno successivo viene inviato direttamente al direttore generale Marcello Minenna attraverso l’ufficio del vicedirettore. Condensa le informazioni pervenute fino a quel giorno dalle verifiche svolte nel Lazio, in collaborazione coi vertici dei Carabinieri del Nas. L’indebita messa in commercio e in uso di Dpi, si legge, “configura elementi seri di pericolo per la salute degli utilizzatori”. E ancora: “L’emergenza sanitaria non giustifica forniture di prodotti scadenti accompagnati da certificati inesistenti e senza alcun valore, dovendo prioritariamente, soprattutto per le forniture ai medici ed infermieri, assicurare prodotti idonei alla protezione dal COVID-19”. La giornalista di Report chiede a Minenna che fine abbiano fatto le relazioni. Alla Procura, risponde Minenna, sostenendo siano coperte da segreto istruttorio. Altre fonti riferiscono al fattoquotidiano.it che in Procura, in realtà, non sarebbero mai arrivate.

Comunque sia, non è l’unico mistero. Il 22 aprile 2020 l’allora direttore dell’Antifrode dell’Adm aveva trasmesso a tutti i direttori locali dell’agenzia una whitelist di società con alti margini di affidabilità autorizzate dalle stesse autorità cinesi a esportare dpi. Alla redazione dell’elenco aveva contribuito l’addetto doganale presso l’Ambasciata d’Italia in Cina, veniva acquisito anche dall’ufficiale della Gdf distaccato a Pechino. La lista era finalizzata sia a orientare i controlli della merce in arrivo alle dogane italiane che a selezionare, con criteri di affidabilità, le compagini aziendali che si stavano accreditando come “fornitori per soggetti partecipanti ai bandi pubblici della Consip”. L’elenco comprende 150 produttori di mascherine protettive mediche, 523 di chirurgiche, 752 di mediche monouso. Il fattoquotidiano.it ha potuto consultarlo: nel periodo iniziale dell’emergenza e anche oltre, vale a dire da aprile e fino a novembre 2020, nessuna società della “white list” è stata usata dalla struttura commissariale per le forniture. Mentre 800 milioni di pezzi acquistati da fornitori che non ne fanno parte sono tutt’ora sotto sequestro. Perché?

L’inchiesta su Arcuri racconta che, per contro, come ad andare in posto siano state commesse affidate a soggetti di dubbia affidabilità. A partire da quelle dell’uomo al centro dell’inchiesta, il giornalista Rai in aspettativa Mario Benotti, titolare di una galassia di attività ramificate in diversi settori, come la Difesa, ma al tempo stesso in grande difficoltà economica prima di quella operazione; tanto da risultare, come ha raccontato Il Fatto, “destinatario di atti di pignoramento ricevuti in qualità di terzi creditori” e firmatario di diversi assegni “risultati privi di copertura e quindi impagati”. Atti che “tracciano un profilo di inaffidabilità sul cliente proprio in relazione al rapporto fiduciario con lui intercorso”, annota la Guardia di Finanza in un’informativa agli atti dell’inchiesta romana. Nel periodo tra gennaio-maggio 2020 Benotti e Arcuri, annotano gli inquirenti, si scambiano 1200 contatti telefonici. Che si interrompono di colpo il 7 maggio. Intervistato su Rete 4 da Nicola Porro, Benotti dirà che “Arcuri mi aveva informato di approfondimenti da parte dei Servizi su tutta la questione”, circostanza smentita dal commissario. A detta di Conte i servizi erano effettivamente della partita. Per chi o cosa giocassero, però, non è chiaro.

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