A ormai due anni dalla scoperta che un virus un tempo sconosciuto provoca polmoniti devastanti potrebbe essere il momento di “decisioni impopolari”, di fare come Olanda e Germania che hanno scelto il lockdown dei non vaccinati e valutare davvero l’obbligo vaccinale anche come “ultima spiaggia”. Silvio Garattini, farmacologo e presidente dell’Istituto Mario Negri, appare deluso dalle ultime iniziative del governo per contenere la pandemia: “Io mi aspettavo di più, più severità: sono decisioni politiche, non scientifiche”.

Allo scienziato abbiamo anche chiesto cosa pensa della corsa ai farmaci antivirali tanto attesi. Sono costosi e chissà quanto veramente utili ad arginare lo “tsunami” Omicron e Delta temuto dall’Oms. Gli antivirali sviluppati da Merck e Pfizer (solo il secondo è stato approvato da Ema, anche se il primo può essere utilizzato comunque) stanno arrivando, ma a differenza dei vaccini non possono essere destinati (quasi) a tutti: hanno precise prescrizioni e comunque devono essere utilizzati da pazienti a rischio con Covid lieve e senza altre gravi patologie, all’insorgere dei sintomi e non oltre i 5 giorni dalla comparsa di sintomi. Eppure nonostante queste indicazioni diversi paesi europei e naturalmente gli Usa hanno cominciato a comprarli. In Italia l’Aifa ha già predisposto le modalità di utilizzo per la pillola Merck Lagevrio (molnupiravir) che sarà distribuita alle Regioni dal 4 gennaio, più avanti arriverà anche il composto di Pfizer. Dopo i primi brillanti risultati annunciati dalla casa farmaceutica Merck però il trattamento ha dimostrato un’efficacia pari al 30%. L’altro antivirale Paxlovid secondo il produttore Pfizer avrebbe una efficacia pari all’89%. E un ciclo di terapia costa circa 700 dollari. Intanto il numero di contagi sale ovunque e in Italia il 30 dicembre si sono superati i 120mila casi.

In questo momento così delicato alcuni ritengono che le pillole anti Covid possano essere una via d’uscita. Sono o saranno davvero risolutive?
Quello che forse è più interessante è il prodotto di Pfizer, ma entrambi agiscono in una fase iniziale: vanno presi subito o entro pochi giorni dall’infezione. Possono essere certamente utili per chi è a rischio e potrebbe sviluppare la malattia. Il problema però è che un vero antivirale dovrebbe essere un prodotto che agisce quando si manifesta la malattia, non quando non sappiamo ancora se arriverà oppure no. Mi spiego: gli antibiotici non li prendiamo prima come preventivi in attesa della malattia, li prendiamo quando comincia. Questo è il problema che abbiamo con questi nuovi antivirali. Sarebbe molto meglio, e credo che arriveranno anche quelli, avere prodotti che agiscono quando c’è la malattia. Prodotti da riservare nei pochi casi in cui c’è, perché la maggioranza di quelli che si infettano non sviluppano la malattia.

Le speranze e i soldi messi su questi antivirali sono quindi eccessivi?
Questi prodotti sono meglio di niente perché hanno la possibilità di frenare la malattia. Però bisogna trattare molti pazienti perché pochi abbiano un vantaggio. Sono eccessivamente cari, i costi sono ingiustamente molto elevati. Diciamo che se ne approfittano. Dall’altra parte l’industria farmaceutica è fatta così, cerca di sfruttare quello che può.

I criteri di utilizzo poi sono anche più stringenti rispetto al vaccino
I dati preliminari dicono che sono abbastanza ben tollerati però solo il tempo e l’uso sui pazienti ci permetterà di sapere come stanno veramente le cose dal punto di vista della tollerabilità. Sappiamo che sono attivi, ma come per tutti i farmaci i benefici si vedono subito, i danni si vedono nel tempo.

Ma c’è qualche altro prodotto in arrivo?
Ce ne sono tantissimi, molti gruppi stanno studiando e lavorando. Con ogni probabilità nei prossimi mesi avremo altri farmaci. Ci tante sono sperimentazioni in corso.

Il 31 dicembre saranno due anni dalla comunicazione della Commissione sanitaria municipale di Wuhan all’Oms di un cluster di casi di polmonite causati da virus ignoto. Si aspettava che la situazione oggi fosse ancora così complessa?
Francamente all’inizio pensavamo tutti che l’epidemia passasse più rapidamente. Purtroppo siamo in questa situazione, è difficile fare previsioni e non sappiamo come evolverà ancora questo virus. Speriamo che una maggiore vaccinazione incida e si riesca a convincere gli indecisi. Dipende da noi: bisogna riprendere le regole generali che abbiamo osservato molto bene all’inizio: mascherina, possibilmente Ffp2, distanziamento ed evitare gli assembramenti. Mi auguravo che vietassero la presenza delle persone alle partire di calcio, per esempio, dove ci sono decine di migliaia di persone e invece no.

Ma quindi secondo lei le misure appena adottate sono insufficienti in questo momento?
I politici a volte non hanno il coraggio di prendere provvedimenti impopolari. Io mi aspettavo di più, sono decisioni politiche, non scientifiche. Mi aspettavo più severità nel fare in modo i grandi affollamenti venissero evitati.

E per quanto riguarda l’obbligo vaccinale a questo punto della pandemia? Se ne discute e potrebbe essere messa sul tavolo al prossimo consiglio dei ministri il 5 gennaio
L’obbligo vaccinale è sempre l’ultima spiaggia, quando ormai si è tentato tutto quello che era possibile. Sono passati due anni ed è arrivato il tempo in cui bisogna avere il coraggio di fare determinate azioni come è stato fatto in altri paesi: in Olanda e Germania hanno deciso il lockdown per i non vaccinati. E poi sono necessari i controlli da parte delle autorità: se lasciamo fare tutto l’infezione continua a girare. Si dovrebbe togliere il tampone dal Green pass perché è solo una fotografia di una situazione e non dovrebbe essere incluso nella certificazione. Con l’esclusione del tampone per partecipare alla vita bisognerà vaccinarsi.

Anche con la quarta dose?
Probabilmente è prematura, in Israele hanno già iniziato. Se ci sarà io la farò, ma abbiamo moltissimi ancora da vaccinare con la terza dose.

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