Il mio racconto di alcuni giorni fa su quanto ho visto nel reparto psichiatrico “Sestante” del carcere di Torino ha smosso una grande attenzione e molte reazioni. Tra queste, quella del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che sta in queste ore chiudendo la sezione. Ovviamente ne siamo felici.

Immagino quanto sia difficile guidare una struttura complessa come il sistema carcerario. Immagino il carico di lavoro, le responsabilità, i tanti livelli decisionali sovrapposti: sarebbe ingenuo pensare che le cose si facciano con lo schioccare delle dita. Però rimango stupita dal leggere sui giornali che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avrebbe affermato – firmando il contratto solo ieri, dopo il polverone sollevato, con la ditta aggiudicatrice dell’appalto – che “è un’opera su cui abbiamo lavorato fin dall’inizio del nostro insediamento e che oggi realizziamo conoscendo benissimo la situazione in cui versa la sezione del penitenziario in questione”.

Io non ho dormito, dopo aver conosciuto quella situazione. Non riesco a immaginare come possa qualcuno conoscerla addirittura benissimo e lasciarla lì. Se davvero è stato detto quanto riportato, se davvero la conoscevano benissimo (anche dopo le molte segnalazioni, in particolare quelle del Garante nazionale), perché è dovuto servire l’intervento di Antigone per far cambiare le cose? Ripeto: so bene che i meccanismi sono complessi e coinvolgono tante persone, fasi, ingranaggi. Per questo parlo a tutti noi: inorridiamo, per favore. Non diamo nulla per scontato. Non abituiamoci a che ci siano vite da buttare via. Se si conosceva benissimo la situazione e si sono aspettati degli anni, allora si è dato per scontato che qualche vita si poteva trattare così.

Fino a che resteremo assuefatti all’orrore non ci sarà scampo. Cambieremo le mattonelle al Sestante, trasferiremo i detenuti in un reparto senza la turca a vista, ma le pratiche profonde con le quali ci rapporteremo a queste persone resteranno le stesse. Non c’è solo quel reparto in Italia. In giro per le carceri si trovano altre sezioni di osservazione psichiatrica, che versano in condizioni strutturali meno degradate ma dove si incontrano le stesse persone imbottite di psicofarmaci e lo stesso abbandono e noncuranza.

Sono felicissima che il reparto stia chiudendo, ma non fermiamoci qui. Adesso guardiamo al futuro. Non facciamo sì che la chiusura del Sestante possa costituire una distrazione da tutto il resto. In queste ore abbiamo già avuto preziosi segnali di attenzione da parte del mondo medico, penitenziario, giudiziario.

Se il Dipartimento conosce oggi altre situazioni come quella, non aspetti mesi e anni prima di firmare il contratto per i lavori. Non vogliamo leggere tra sei mesi che “conosceva benissimo” ma non ha fatto nulla. Se i dirigenti delle Asl sanno che i loro medici lasciano vivere le persone chiuse in gabbia e incapaci di reggersi in piedi per la quantità di psicofarmaci che ingeriscono, prendano immediati provvedimenti e impongano la chiusura dei reparti per ragioni sanitarie. Se una direzione di istituto sa di avere un reparto come quello nel proprio carcere, urli, lo denunci, lo scriva sui giornali.

Non c’è burocrazia di fronte a violazioni così profonde della dignità della persona.

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