Hasta la concorrenza siempre, anzi no! La multa dell’Antitrust italiano nei confronti di Amazon disorienta molti opinionisti italiani che corrono in soccorso del colosso statunitense. Per una volta l’autorità che vigila sulla concorrenza e sul mercato ha comminato una sanzione (1,1 miliardi di euro) che è proporzionata alle dimensioni del soggetto che la subisce. Esattamente quello che si propongono le nuove regole dell’Unione europea in materia. È facile capire che se un gruppo fattura decine di miliardi di euro una multa di qualche milione non fa neppure il solletico e non ha alcun effetto deterrente verso comportamenti giudicati dannosi per il sistema economico nel suo complesso. Così come è facile intuire che una multa comminata ad uno dei complessi industriali più grandi e potenti del mondo è frutto di lunghe interlocuzioni sia con l’Antitrust europeo, sia, almeno in una qualche misura, con le autorità statunitensi.

Semplificando un poco le motivazioni contenute nella lunga istruttoria Antitrust, la multa è stata erogata perché Amazon sfrutta la sua posizione dominante nel settore delle piattaforme e-commerce per avvantaggiare anche la sua divisione di servizi logistici (la consegna dei pacchi) a danno di concorrenti più tradizionali come Fedex, Dhl etc. In sostanza chi sceglie di far gestire la logistica ad Amazon, che poi si affida per lo più a soggetti terzi per le operazioni di consegna (ma programma importanti investimenti per gestire direttamente il recapito dei pacchi) riceve una serie di “benefit”, tra cui soprattutto l’inclusione nel programma “prime”. Va precisato che, guardando i bilanci del gruppo statunitense, la parte logistica non sia certo una gallina dalle uova d’oro (a differenza ad esempio della divisione cloud), il servizio di consegna viene offerto per lo più per rafforzare il legame degli utenti con la piattaforma.

L’offensiva contro la sentenza dell’Antitrust parte dalle pagine del quotidiano Il Foglio di sabato scorso. Da un lato con un articolo di Carlo Amenta e Carlo Stagnaro e, dall’altro, con un intervento del professore associato della Bocconi di Milano Carlo Alberto Carnevale Maffé. Stagnaro è consulente del governo Draghi e, come Amenta, è membro dell’Istituto Bruno Leoni (associazione che promuove la libertà di mercato ma di cui è impossibile conoscere i finanziatori e che conta diversi membri riconducibili alla galassia Benetton). Rilancia poi su twitter Franco De Benedetti (fratello del più noto Carlo, ndr) che dell‘Istituto Bruno Leoni è il presidente.

Il Foglio “schiera” anche il turbo liberista Carnevale Maffé, professore associato alla Bocconi di Milano che difende quella che descrive testualmente come “La più grande piattaforma di e-commerce d’Italia e d’Europa, che ha garantito la continuità della distribuzione durante la pandemia e ha contribuito al benessere di milioni di famiglie aumentando a dismisura la gamma di prodotti accessibili a prezzi convenienti” e il cui servizio prime “ha raggiunto vette leggendarie nel livello del servizio e nella tempestività di consegna”. È insomma quasi controvoglia che Amazon, salvatrice dell’umanità, ha visto nel 2020 i sui ricavi balzare del 38% a 386 miliardi di dollari proprio grazie alle chiusure dei negozi tradizionali legate al lockdown. E chissà se ai fini di una discussione su una giusta concorrenza abbia qualche rilevanza anche la capacità, in cui Amazon eccelle, di spostare i profitti nei paesi dove non si pagano le tasse.

In scia ai due contributi sul Foglio arriva il tweet dell’economista GianPaolo Galli, un passato a capo del centro studi di Confindustria e finito poi a fare il parlamentare del Pd.

E poi c’è Franco Bassanini, socialista prima, comunista poi, ex presidente di Cassa depositi e prestiti e poi consigliere speciale di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.

A monte di queste esternazioni c’è un’idea piuttosto datata delle regolamentazioni antitrust, quella del “consumer welfare” sviluppata a Chicago e poi implementata sotto la presidenza di Ronald Reagan. Qui la stella polare sono le ricadute immediate che le aggregazioni industriali e comportamenti messi in atto dalle aziende hanno sulle condizioni offerte al consumatore. Nient’altro. Se i consumatori ne traggono beneficio vale più o meno tutto. Questo tipo di approccio è stato poi importato in Europa dall’allora dall’allora commissario europeo alla concorrenza, il bocconiano Mario Monti. Sebbene la Corte Ue abbia in più occasioni ribadito che l’intento dell’Unione dovrebbe essere quello di tutelare la concorrenza in quanto tale, la Commissione ha per lungo tempo seguito la linea di Monti salvo correggere parzialmente la rotta negli ultimi anni.

Il grave problema della visione incentrata sul “consumer welfare” è che comporta valutazioni estremamente circoscritte da cui sono escluse considerazioni di lungo periodo inerenti ad esempio i possibili danni derivanti da un eccesso di potere, da esternalità negative come l’inquinamento, dei rischi posti ai sistemi democratici etc. Ma quello che nell’immediato è un risparmio economico per i consumatori può trasformarsi in costi sotto altra forma. Alla fine dietro queste tecnicalità, in cui il consumatore è usato come “scudo umano” c’è il sempiterno dibattito tra chi ritiene che i mercati si sappiano autoregolare e chi ritiene invece che siano necessari correttivi dall’esterno.

Resta il fatto che le debolezze dell’approccio “consumer welfare” emergono in maniera evidente di fronte all’affermazione sui mercati internazionali dei colossi web. E infatti negli Stati Uniti a guidare l’Antitrust è stata messa la giovane Lina Khan, autrice, tra l’altro del saggio “Amazon’s Antirtust Paradox”. Qui l’esperta di concorrenza evidenzia come l’approccio basato solo sull’utilità del consumatore fallisca completamente nell’individuare e quindi arginare gli abusi di posizione dominante dei colossi, forti, tra le altre cose, delle innumerevoli informazioni sui comportamenti dei concorrenti che riescono a raccogliere grazie alla loro posizione. L’Antitrust italiano ne ha giustamente preso atto.

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