di Ilaria Muggianu Scano

Per conoscere l’età degli alberi è necessario contare i cerchi concentrici del fusto. Per l’uomo la prassi è di gran lunga più ecosostenibile, non occorre sezionarne il tronco ma osservare per cosa ride.

Inizialmente temperata da un garbato scetticismo, la passione per la metafisica della comicità ha progressivamente permeato ogni ambito del sociale. Anche gli irriducibili sacerdoti dell’understatement hanno dovuto capitolare davanti alla sacralità ontologica della comicità del terzo decennio. La stand up comedy oggi si colloca televisivamente a prua ed è ciò che MasterChef è stato negli anni ’10: sketch esilaranti celebrati con la seriosità liturgica degli iniziati.

Dall’umorismo frondista – in forma di cronaca, lontana tipologicamente dalla satira politica – passando dalla comicità culturalmente spendibile, come quella ospitata da Fabio Fazio per intendersi, alla verbosissima comicità di Amy Sherman Palladino, geniale creatrice di The Marvelous Mrs. Maisel, che insegna alla donna a concedersi di ridere e far ridere, la comicità degli anni Duemila ha raggiunto vette di levatura incontrovertibile, fino alla consapevolezza ossimorica di dover scherzare seriamente.

Comicità, dunque, come prodotto che sazi tendenzialmente ogni palato, certamente ogni età, sino ad arrivare ai sofisticati esiti di LOL, game show italiano su format giapponese, distribuito da Prime Video e ideato dal comico Hitoshi Matsumoto, che oltre a fornire precisa identificazione anagrafica consente una precisa geolocalizzazione del target. Agli albori del 2000, per convinzione collettiva, chi guardava reality di qualsiasi matrice era un adolescente, o un giovanissimo del Sud dalle sovrastrutture culturali piuttosto basiche; fasce d’età precedenti e seriori si confondevano nell’ectoplasma indistinto dei programmi generalisti, almeno fino al consolidamento delle tv tematiche.

Se prima ancora i protagonisti di corte erano i giullari, tristi menestrelli che immalinconivano più che esortare civicamente, oggi la comicità è prerogativa di professionisti che processano ogni dibattito sociale e spesso sono gli unici a fornire al pubblico (leggi elettorato) le parole per urlare il malcontento e sventolare i propri tweet de doléances. Qualcuno ha pure vinto, e di misura, le Politiche, tempo fa. Come dire, se prima ci si sfamava ora si cucina, il che, semanticamente, fa una differenza badiale.

Se la gastro-tendenza oscilla da generazione a generazione, la comicità non conosce tramonto, prova ne sia la fascinazione subita a lungo dalla Generazione X (i nati tra il 1965 e il 1980) nei confronti di Sex and the city e della fedele ostentazione del non saper cucinare, del non avere dimestichezza alcuna con i fornelli e impiegare il frigo-bar solo per conservare le creme viso, sesquipedale stereotipia della donna in carriera. Poi venne MasterChef, e con la gastrocrazia crebbe la nuova religione del millennial multitasking ad alto grado di perfezione.

La comicità è decisamente multigenerazionale e intergenerazionale, e soprattutto non ha storicamente registrato alcuna apostasia, fatti salvi i manuali bon ton della nonna nei quali si esorta la fanciulla di buona famiglia a non ridere in pubblico malgrado l’imperativo categorico d’essere perfetta moglie e brillante domina degli ospiti (del marito). Difficile, però, ridere allo stesso ritmo generazionale.

Se la Silent Generation (1928-1945) legata a Jerry Lewis e Totò non disdegna Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, anche il più irremovibile radical chic Baby Boomer (1946-1964), che guarda in tralice la comicità come agguato a ogni riflessione impegnata, si concede, al più, un verdonismo dolceamaro.

I riferimenti colti e veloci di Paola Cortellesi e Geppi Cucciari ammaliano gli esigentissimi Gen Y, i Gen Alpha (2010-21) prediligono The Jackal, che tanto hanno fatto storcere il naso alla Gialappa’s band, la quale è curiosamente ancora seguita dalla Generazione Z, soprattutto per Aldo, Giovanni e Giacomo.

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