Non bastava il (fallito) blitz berlusconian-renziano sulle porte girevoli. Ad azzoppare il disegno di legge per regolamentare il lobbismo c’è riuscita un’altra modifica di peso: l’esclusione di Confindustria e dei sindacati dagli obblighi di trasparenza dettati dal testo. Un salvacondotto voluto nelle scorse settimane – come ha raccontato ilfattoquotidiano.it – da parlamentari di quasi tutti i partiti, dalla Lega al Pd passando per Forza Italia, Italia viva, Coraggio Italia, Noi con l’Italia e persino le minoranze linguistiche del Gruppo misto. E diventato realtà martedì, quando la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha approvato l’emendamento unico che ha sostituito quattro proposte quasi identiche, firmate – rispettivamente – dall’ex ministro Maurizio Lupi, dalle azzurre Annagrazia Calabria e Lorenza Milanato, da Marco Di Maio e Silvia Fregolent di Iv e dal gruppo della Lega al completo. Missione compiuta: nè i lobbisti di Confindustria (o delle sue tante articolazioni) nè quelli delle sigle sindacali saranno costretti – tra le altre cose – a iscriversi a un registro pubblico e ad aggiornare quotidianamente la propria agenda degli incontri con i decisori politici, mettendo a disposizione una sintesi del contenuto. “Abbiamo avuto la conferma che per i nostri politici esistono interessi di serie A e di serie B”, riassume The Good Lobby, l’ong che da anni si batte per una disciplina moderna dei rapporti tra politica e portatori d’interessi. E definisce la resistenza opposta dai partiti come “un autentico muro di gomma“.

Ma in cosa consiste l’emendamento salva-Confindustria? Nella soppressione di appena otto parole: “Nell’ambito dei processi decisionali connessi alla contrattazione”. Per capirne la portata serve leggere l’articolo 3 del ddl, che fa un elenco dei soggetti esclusi dal dovere di rendicontare i propri incontri con i politici. Al comma 1 si citano per esempio i giornalisti, i comunicatori istituzionali, i funzionari pubblici, i rappresentanti dei governi e dei partiti di Stati esteri. Ma quello che rileva è il comma 2: “Le disposizioni della presente legge non si applicano (…) alle attività svolte da esponenti di organizzazioni sindacali e imprenditoriali nell’ambito dei processi decisionali connessi alla contrattazione”. Eliminando le ultime parole, il risultato è che sindacati e industriali non dovranno osservare alcuna trasparenza tout court, e non solo – come voleva il testo originale – quando svolgono l’attività di contrattazione collettiva loro affidata dalla Costituzione. Per i loro lobbisti non varrà ciò che si vuol rendere obbligatorio per tutti gli altri, cioè l’iscrizione a un registro digitale da tenersi presso l’Agcm (Autorità garante della concorrenza), dichiarando il soggetto per cui lavorano, “le risorse umane ed economiche” di cui dispongono, aggiornando ogni giorno “l’elenco degli incontri svolti nel giorno precedente”, con “una sintesi degli argomenti trattati e del contenuto”. E il divieto di “corrispondere, a titolo di liberalità, alcuna somma di denaro o altre utilità economicamente rilevanti a rappresentanti del Governo né ai partiti, movimenti e gruppi politici e a loro esponenti o a intermediari”.

Di conseguenza i cittadini non potranno conoscere le interlocuzioni tra politici e lobbisti industriali (ma anche di altre organizzazioni imprenditoriali, quali Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato e così via) su argomenti delicatissimi come le politiche ambientali o l’utilizzo dei fondi del Pnrr. “Confindustria e company, gli attori più influenti, potranno continuare a boicottare le norme che non gli piacciono e promuovere quelle che gli piacciono, orientando l’investimento dei fondi nella direzione che preferiscono. Attività che hanno sempre svolto e svolgeranno ancora in maniera massiccia nei prossimi mesi”, spiega al fattoquotidiano.it il presidente di The Good Lobby, Federico Anghelé. “Dall’altra parte, invece, le organizzazioni della società civile dovranno osservare le norme di trasparenza e rendicontazione, con l’aggravio che comporta in termini amministrativi e burocratici. Un controsenso che aggrava per legge l’asimmetria già esistente di fatto, legittimando la posizione dominante delle sigle imprenditoriali, che hanno già potere, contatti e relazioni e non dovranno nemmeno rendere conto a nessuno. Evidentemente questo squilibrio è considerato giusto dalla nostra politica”. E ciò, prosegue, “nonostante gli standard internazionali dell’Ocse prevedano che tutti gli attori che svolgono attività di rappresentanza di interessi debbano sottostare alle regole di trasparenza”.

L’emendamento è passato in Commissione all’unanimità, essendo entrato nel “pacchetto” concordato tra le varie forze politiche. Ma se diventasse legge, denuncia la ong, “ci troveremmo di fronte a una disposizione assurda, dato che a livello europeo non esiste nessun dubbio sul fatto che Confindustria o i sindacati confederali debbano rispettare le stesse regole” previste per gli altri. Il che consente ai cittadini di sorvegliare la loro attività di lobbying a Bruxelles, mentre quella svolta a Roma rimane opaca. “Ad esempio – racconta Anghelè – in Europa Confindustria ha all’attivo ben 77 incontri con i Commissari o alti dirigenti responsabili di vari dossier ed europarlamentari, spendendo quasi un milione di euro in attività di lobbying, il doppio dei cugini francesi del Mouvement des Entreprises de France, che dichiarano 500mila euro con 28 incontri registrati). La Cisl ha invece dichiarato di spendere 400mila euro in attività di lobbying a Bruxelles con tre soli incontri con le istituzioni europee”. Per questo The Good Lobby promette battaglia fino all’ultimo per evitare l’approvazione definitiva: “In vista del voto sulla proposta di legge, la coalizione #Lobbying4Change lancerà un’azione di social e mail bombing per spingere le forze politiche che stanno sostenendo questo emendamento a cambiare rotta”, si legge nel loro comunicato. “Se la norma dovesse passare sarebbe una disparità contraria alla Costituzione e allo spirito delle norme europee, e la società civile dovrebbe rivolgersi alle autorità competenti. A questo punto è legittimo pensare che le associazioni imprenditoriali vogliano nascondere le modalità con cui cercano di influenzare le decisioni pubbliche nel nostro Paese”.

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