Nell’inferno dei dannati africani, rapiti e scomparsi in Libia, c’è il girone estremo: quello dei migranti che nessuno cerca più. Carne da macello buona solo per ottenere soldi dalle famiglie per il riscatto. E così le organizzazioni criminali libiche, attive nel marasma di un Paese senza legge e fuori controllo da anni, per fare soldi sulla pelle dei migranti in fuga verso l’Europa si sono rivolte al sistema tecnologico più in voga: i social network.

Facebook, utilizzato da molti per ritrovare amici e conoscenti di vecchia data di cui si erano perse le tracce, viene usato dalle bande in Libia per estorcere soldi alle famiglie dei giovani prevalentemente provenienti dall’Africa subsahariana: “Spesso gli africani fermati e reclusi riescono a contattare le famiglie e chiedere loro di pagare il riscatto ed essere quindi liberati. In alcuni casi ciò non accade. I criminali in Libia non hanno tempo da perdere e considerano gli esseri umani come dei bancomat da sfruttare. L’estremo tentativo di entrare in contatto con le famiglie di alcuni di loro è quello di pubblicare le foto di ragazzi e uomini sui social e farle viaggiare nella rete fino a che possano essere riconosciuti da qualcuno nella speranza di ricevere il pagamento dei riscatti”. A parlare è Aboubacar (preferisce non aggiungere altri dettagli della sua identità), originario del Niger, il Paese-chiave delle rotte migratorie di tutta l’Africa subsahariana e del Corno d’Africa verso la Libia. Lui stesso, svariati anni fa, ha percorso quella strada con successo, arrivando in Italia e oggi si occupa proprio di mediazione e di migranti. Fa parte di una rete di nigerini operativi tra Libia e il resto dei due continenti, alcuni dei quali integrati e residenti da anni nel Paese, e ci conferma il sistema messo in atto dalle bande organizzate sorte come funghi nel Paese orfano di Muhammar Gheddafi da dieci anni.

Una di queste organizzazioni ha pubblicato in rete le foto di decine di migranti e a ognuno di loro ha messo in mano un cartellino con il rispettivo numero. Una via di mezzo tra un riconoscimento di polizia e la vendita di esseri umani al mercato. Gli sguardi dei migranti sono terrorizzati, dimessi, imploranti aiuto, stanchi e quasi rassegnati. Alcuni volti presentano evidenti tumefazioni da percosse, ferite, occhi gonfi. I loro carcerieri li hanno messi di spalle a uno sfondo neutro bianco, intimato loro di guardare verso l’obiettivo e soprattutto di tenere ben evidente in mano o appoggiato sul collo delle t-shirt e delle camicie il numero identificativo: dall’1 a salire fino al 28, almeno nei documenti fotografici di cui Ilfattoquotidiano.it è venuto a conoscenza, ma non è escluso che possano essere molti di più.

I tratti somatici di alcuni di loro raccontano di chiare origini del Corno d’Africa e anche sudanesi, ma non mancano persone provenienti da altri Stati, nello specifico dell’Africa subsahariana. La serie di fotografie postate è stata ripresa, tra gli atri, dal profilo Sudanese around the world, uno dei tanti domini internazionali per ricevere e divulgare notizie di connazionali come tanti ce ne sono nel mondo. Conta 720mila followers e sul post dedicato ai migranti arrestati e fotografati ha ricevuto più di mille commenti. Nella descrizione del post il responsabile del dominio scrive: ‘Tra di loro ci sono persone arrestate e di cui i loro genitori non hanno più notizie da anni. Chiediamo a chiunque riconosca uno di loro di avvisare le famiglie”. “Esattamente il risultato che speravano di ottenere i carcerieri – conferma Aboubacar -, far girare quelle immagini e arrivare alla fonte probabile del riscatto. Condividere le foto per allargare lo spettro dell’analisi e arrivare in tutti i Paesi africani. La forza della rete, nel caso di cui parliamo messa a sostegno del crimine, ma in fondo l’unico modo possibile per liberare i migranti dal carcere e salvarli da morte certa”.

Il fenomeno dei rapimenti e dei riscatti in Libia è una storia già nota nella sua drammaticità e negli anni si è evoluta assumendo forme e tecniche sempre nuove e diverse. L’immigrato nigerino in Italia ci aiuta a capire di più: “I ragazzi delle foto sono quelli che le organizzazioni criminali non sono riusciti ancora a sfruttare. Il loro destino è atroce, restare dentro le prigioni urbane di Tripoli e altre località della Libia settentrionale in attesa di un pagamento. E quando non c’è più alcuna speranza è molto probabile che vengano uccisi perché non redditizi. Il sistema migratorio in Libia è molto semplice. Le bande fuorilegge intercettano i migranti al confine con i Paesi vicini, in particolare proprio il Niger, ma anche l’Algeria, il Ciad e il Sudan e garantiscono loro il trasporto fino alla Tripolitania, sempre attraverso il pagamento di somme di denaro ovviamente. Spesso i migranti non sanno che una volta a Tripoli non saranno lasciati andare o messi in contatto con le organizzazioni degli scafisti per le traversate del canale di Sicilia e lì inizia il vero calvario. Bande di trafficanti di esseri umani e di scafisti sono quasi sempre la stessa cosa. Il sistema di pagamento dei riscatti può avvenire in diversi modi, attraverso i canali delle rimesse, via Western Union, MoneyGram e così via, ma anche a mano. I criminali libici hanno contatti, intermediari e referenti in ogni Paese africano e la consegna è rapida e soprattutto non tracciabile”.

Aboubacar ci tiene infine ad affermare un concetto: “In Italia si parla tanto delle tragedie del mare, delle imbarcazioni delle ong che salvano le vite nel Mediterraneo, ma poco, pochissimo del vero problema migratorio, ossia ciò che accade a terra, in Libia. Nei lager, nelle case e nei capannoni urbani dove i migranti vengono rinchiusi, tenuti in ostaggio per mesi, anni e da dove molti non usciranno mai. Le dimensioni di quelle tragedie sono nettamente superiori in termini numerici rispetto alle tragedie del mare”.

Operare in Libia per le organizzazioni internazionali non è facile. In particolare per l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, da sempre sul territorio per avviare corridoi umanitari, resettlement e rimpatri assistiti, ma soprattutto per limitare le pene di decine di migliaia di migranti. Assieme al governo di transizione della Cirenaica e del Dcim (Directorate for combatting illegal migration) gestiscono, per quanto possibile, i centri di detenzione ufficiali che da anni ospitano i migranti richiedenti asilo in Libia: “Il fenomeno dei rapimenti di migranti per scopi estorsivi lo conosciamo purtroppo bene e in questi anni è stato declinato sotto varie forme – spiega Caroline Gluck, responsabile delle relazioni esterne di Unhcr Libia – Nello specifico delle foto dei migranti pubblicate sui social dalle organizzazioni criminali libiche per raggiungere le famiglie, è la prima volta che mi capita. Detto questo ritengo la cosa altamente plausibile nella sua drammaticità. È disumano tutto ciò, le foto sono allucinanti, soprattutto quei numeri tenuti in mano. Noi cerchiamo di fare il possibile per limitare i fenomeni, ma non è facile intervenire dappertutto”.

A proposito di Libia e di Niger, nella serata di giovedì scorso, 4 novembre, l’Unhcr è riuscita a far ripartire il ponte aereo e 172 richiedenti asilo di varie nazionalità considerati ‘vulnerabili’ sono stati evacuati dalla Libia. Non accadeva da più di un anno, da quando le autorità libiche avevano interrotto i voli umanitari in uscita dal Paese. L’unico problema per i richiedenti asilo è che il loro volo non li ha portati verso la ‘terra promessa’, un qualsiasi Paese europeo, bensì di nuovo indietro in Niger. Un drammatico ‘gioco dell’oca’ sulla loro pelle: “Visti i posti limitati, questa operazione va considerata una soluzione estrema per persone estremamente vulnerabili e bisognose di sicurezza e protezione a causa di detenzioni terribili e di traffico di esseri umani”, ha detto Jean-Paul Cavalieri, capo missione Unhcr in Libia.

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