Di fatto nel nostro sistema penale coesistono due codici distinti; uno per i “galantuomini” (cioè le persone che, in base al censo o alla collocazione politico- sociale, sono considerati “per bene” a prescindere…), l’altro per i cittadini comuni. I primi possono contare su difensori e consulenti tecnici costosi e agguerriti, professionalmente in grado di sfruttare l’opportunità di eccezioni d’ogni tipo, generosamente offerta dagli ingranaggi di una procedura malandata. Per loro, in pratica, il processo può ridursi soprattutto ad aspettare che il tempo si sostituisca al giudice, in attesa della prescrizione che tutto cancella. Mentre per gli altri cittadini, quelli “comuni”, il processo, per quanto di durata biblica, ha più probabilità di concludersi senza prescrizione, con effetti ben più pesanti sulla vita e sugli interessi. Un’asimmetria incostituzionale, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolvono nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove in realtà è la prescrizione infinita che contribuisce fortemente a far durare all’inverosimile certi processi. Un corto circuito. In ogni caso una forte spinta a tirarla quanto più possibile per le lunghe.

La riforma della prescrizione. Le cose sono cambiate il 1° gennaio 2020, quando è entrata in vigore una norma (riferibile al ministro Bonafede) secondo cui la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado (anche di assoluzione). Contro questo “blocco” della prescrizione sono state scatenate accuse pesanti. C’è chi sostiene che esso avrebbe potuto avere conseguenze nefaste, ma in realtà gli effetti della riforma potranno essere valutati soltanto fra qualche anno. Dunque è una semplice ipotesi quella secondo cui il blocco dopo la sentenza di primo grado creerebbe un monstrum, quello dell’imputato a vita sospeso in un limbo perpetuo. Ipotesi suggestiva, ma almeno in parte fondata su una teoria dell’assurdo, nel senso che presuppone la totale chiusura dei palazzi di giustizia italiani subito dopo le sentenze di primo grado… In ogni caso la prospettiva di una pendenza perpetua sarebbe circoscritta ad alcuni processi soltanto e comunque bilanciata dall’azzeramento dei molti casi in cui, con la prescrizione, la giustizia deve riconoscere il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità.

Comunque sia, alle furiose polemiche sul blocco Bonafede (c’è chi è arrivato a parlare di “bomba atomica”, e di “Santa Inquisizione”) è seguita la riforma Cartabia. che ha escogitato un “ibrido”: mantenere il blocco della Bonafede e nel contempo spalancare di nuovo le porte, perché se alla sentenza di primo grado non segue entro due anni la sentenza d’appello il processo diventa improcedibile (cioè si prescrive ma con un altro nome…), mentre viene riesumata la convenienza nefasta di appigliarsi a tutto pur di guadagnare tempo. Invece dell’ipotetico limbo, una tagliola; con moltissimi colpevoli impuniti, innocenti mai riconosciuti come tali e vittime ridotte a sentirsi dire “abbiamo scherzato”. Per di più la riforma Cartabia è stata caratterizzata da rilevanti ripensamenti all’ultimo momento: almeno per alcuni gravi reati, in particolare di mafia, terrorismo, traffico di droga e violenza sessuale, la tagliola è stata allentata; escludendo però dalla rettifica reati come la corruzione, il peculato, la bancarotta, i morti sul lavoro, i reati ambientali e altri ancora. In sostanza, segnali di una certa confusione. A riscontro di quanto sia illusorio pensare poter fissare i tempi del processo con decreto, sostituendo al codice un cronometro: come se invece di sentenze si dovessero produrre oggetti a cottimo.

Per concludere, vogliamo sottolineare che il tema della prescrizione non è indolore. Ricordate il caso Eternit, l’amianto che uccide? Uno di noi (allora procuratore della Repubblica di Torino) ha assistito alla lettura del dispositivo di condanna degli imputati in tribunale. Ci vollero più di tre ore, a causa dell’infinito elenco di persone offese. Tre ore in piedi per ascoltare una sequenza interminabile di nomi che da sola testimoniava le eccezionali dimensioni del dramma che si stava giudicando. La condanna, confermata in appello, fu poi spazzata via dalla Cassazione, che ancorò la prescrizione del reato di disastro ambientale alla chiusura delle fabbriche (1986), senza considerare che anche dopo tale chiusura permangono gli effetti mortali dell’amianto in esse prodotto, effetti che si registrano ancora oggi e che continueranno a prodursi in futuro. Una decisione che per molti ha rappresentato un caso di summum ius, summa iniuria, locuzione latina secondo la quale anche l’applicazione più rigorosa di una norma può diventare un’ingiustizia, se si cancellano di fatto migliaia di morti di cancro e le responsabilità di chi le ha causate. Come se tempo trascorso fosse una specie di magia capace di cancellare le peggiori tragedie. Il processo però non è magia, anche se la parola della Cassazione, l’ultima, per convenzione è quella “giusta” in quanto non appellabile. Ma si tratta appunto di convenzione. Si dice che l’ultima sentenza facit de albo nigrum, può cambiare il bianco in nero: proprio per questo il diritto, il buon senso e la giustizia devono essere quanto più possibile intrecciati e non separati. E se ciò non avviene, spetta al legislatore intervenire, modificando la disciplina della decorrenza della prescrizione, come tutti si erano solennemente impegnati a fare dopo il caso Eternit. Al momento, però, registriamo soprattutto polemiche anziché fatti!

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