“Vivere in alpeggio senza energia elettrica? È una scelta”. Carlo Mazzoleni, 31 anni, originario di Morbegno, 12mila abitanti in provincia di Sondrio, parla dalla casera di stagionatura dello Storico Ribelle, ai piedi della Valtellina. La società di cui fa parte è nata come azionariato popolare e ha come principale obiettivo tramandare il lavoro, le operazioni e le tradizioni di uno storico formaggio d’alta quota. Tutto è nato nel 2003 grazie “all’intuizione e al coraggio” di Paolo Ciapparelli, classe 1951, originario di Morbegno, insieme ad altri dieci imprenditori. L’espressione di “una vera e propria rete di solidarietà”, spiega Paolo. “Ritiriamo la produzione pagando un prezzo etico che consente di coprire i maggiori costi sostenuti adottando il metodo storico, ad alta intensità di lavoro”. Il formaggio deve avere caratteristiche “molto definite e importanti – spiega Carlo al fatto.it –. L’operazione è fatta tutta con fondi da parte di privati che hanno deciso di acquistare arredamenti, attrezzature, tutto il necessario per fare questo lavoro”. Gli imprenditori “rischiano e hanno rischiato di tasca propria – continua Paolo – mossi dalla passione sincera per un prodotto, simbolo della loro terra, che stava scomparendo”.

Gli alpeggi si estendono nelle vallate orobiche occidentali, un territorio che per esposizione, umidità e temperatura fin dal Medioevo è stato alla base di un’economia di allevamento e di produzione casearia specializzata. Cosa significa vivere tutto l’anno in alpeggio, senza energia elettrica, televisione, internet? Carlo ha iniziato a 14 anni lavorando nei rifugi alpini. “Non è facile trovare personale – spiega –, bisogna anche rendere sostenibile questa produzione per pagare degnamente chi fa questa scelta”. La maggior parte dei giovani che ci sono adesso “chiamano le vacche per nome, una per una, sono affezionati a questo tipo di vita, perché dà qualcosa in più. Non farebbero mai cambio con un lavoro a fondovalle, con orari fissi mattina e sera”, sorride.
L’azionariato popolare conta oggi più di 200 soci, con un CdA che si occupa della straordinaria amministrazione e dei passaggi importanti. Ogni giorno, tutto l’anno, Carlo e lo staff si occupano invece della stagionatura del formaggio in una casera naturale. “La cantina non è refrigerata, abbiamo all’interno tra le due e le tremila forme e per fare questo tipo di stagionatura dobbiamo occuparci della pulizia, che diventa maniacale, e mantenere la temperatura costante”. Durante l’estate, poi, bisogna andare a visitare ogni alpeggio, non tanto per controllare ma per partecipare, capire i dettagli della produzione. “Teniamo sotto controllo ogni erba d’alpeggio – sorride –. Le forme sono tutte diverse, alcune sono buone da mangiare ogni 3 mesi, altre dopo anni”.
Una tradizione a cui partecipano in primo piano le donne, il cui numero sta crescendo negli ultimi anni. E i più giovani che, sempre di più, decidono di scegliere la vita tra le montagne. Sugli alpeggi oggi vivono persone dai 15 agli 80 anni, spiega Carlo. “C’è la generazione dei nonni, che ha sempre lavorato così e non si è mai posta la questione di cambiare il sistema, il metodo. C’è quella dei padri, che ha vissuto l’industrializzazione del fondovalle, e poi ci sono i giovani di 20-30 anni che dopo gli studi riprendono le aziende di famiglia e si mettono in testa di portare avanti la tradizione con un fine etico, storico”.

La pandemia ha inciso e parecchio. Buona parte dei clienti dell’azionariato è composta da ristoratori. “Ma poteva pesare molto di più: per fortuna abbiamo un formaggio da invecchiamento. Una rimanenza di magazzino non è per forza di cose un danno”, spiegano. Negli ultimi mesi è stato possibile riassettarsi, ammodernarsi, studiare strade per il commercio internazionale. Anche il mercato è cambiato, con “maggior attenzione sullo sviluppo delle vendite online”. Finanziamenti pubblici? “L’azionariato nasce per questo – sorride Paolo, che ha presentato negli anni scorsi un ricorso in sede italiana ed europea contro l’utilizzo di mangimi e fermenti e lo stravolgimento del sistema pascolo –. Qui arrivano fondi a pioggia, senza distinzione alcuna tra chi lo fa per soldi e chi per tenere viva una storia, una tradizione”. Alcuni hanno addirittura “messo i bastoni tra le ruote – aggiunge –. Non è un caso se oggi, dopo la protesta contro le modifiche disciplinari di produzione ci chiamiamo Storico Ribelle”. “C’è stato un momento in cui si è iniziato a ingrandire le stalle, ospitare sempre più animali: pensavano fosse la soluzione – conclude Carlo –, è stato l’inizio dei problemi”. Paolo ha appena ricevuto il Premio della Resistenza Casearia 2021 grazie alla sua battaglia “per veder riconosciuto il valore del pascolo e la storia casearia illustre di questa parte delle Alpi”. La vita in alpeggio, d’altronde, ti rende diverso. “I miei amici sono molto più rilassati, d’estate restano all’aria aperta 18 ore al giorno, con i loro pensieri. È una questione interiore. Ma chi fa questa scelta – sorride Carlo – la condivide al 110%”.

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