Il triangolo è servito. Con l’acquisto del Newcastle da parte di un consorzio guidato dal PIF (Fondo per gli Investimenti Pubblici) appartenente al principe saudita Mohammed Bin Salman, che deterrà l’80% delle quote dei Magpies pagando una cifra attorno ai 353 milioni di euro, la triade del petrolio Qatar-Emirati Arabi Uniti-Arabia Saudita si è ricomposta anche nell’élite del calcio europeo e mondiale. Non si tratta di una novità assoluta, visto che i tre Stati sono già attivi nel medesimo contesto calcistico, ovvero il campionato belga (autentico porto franco globalizzato nel quale 14 delle 26 società si trovano nelle mani di proprietari stranieri), dove sono proprietari rispettivamente di Lommel (EAU), Eupen (Qatar) e Beerschot (Arabia Saudita). Adesso dal parco giochi di periferia sono passati direttamente a Gardaland.

Su The Athletic, Matt Slater ha sintetizzato l’acquisizione del Newcastle in poche righe. L’Arabia Saudita ha acquistato un club di Premier League perché i vicini Qatar e EAU possiedono a loro volta una società di alto profilo e, numeri alla mano, il ritorno ottenuto a livello mediatico e commerciale è risultato indiscutibile. “Ci aveva già provato un anno fa”, scrive, “ma c’era di mezzo un conflitto con il Qatar e l’utilizzo del calcio come arma per vincere tale conflitto si è rivelato inefficace. Pertanto è bastato rimuovere la questione scatenante il conflitto per ottenere il proprio investimento top”. Ovvero una squadra del campionato più ricco del mondo, pronta a diventare un nuovo Manchester City o un nuovo Paris Saint Germain.

Il conflitto Qatar-Arabia Saudita verteva su un caso, piuttosto clamoroso, di pirateria digitale. Tutto è iniziato nel giugno 2017 quando Bahrain, EAU, Egitto e Arabia Saudita decidono di imporre un embargo diplomatico, economico e logistico al Qatar, accusato di sostenere e finanziare gruppi terroristici. Vengono chiusi i confini terrestri e marittimi, viene negato il passaggio nello spazio aereo, tutti i contratti e gli scambi commerciali sono annullati. Ma l’Arabia Saudita va oltre: sul proprio territorio spunta la tv pirata beoutQ che inizia a trasmettere partite di Premier League, gran premi di Formula 1 e match di competizioni Fifa. Tutti eventi di cui la qatariota beIN possiede i diritti sportivi per il Medio Oriente e la fascia settentrionale del continente africano.

Un’operazione di pirateria digitale che costa a beIN, solo per le annate 2018 e 2019 di Premier League, un miliardo di euro in mancati introiti. Questa la cifra presentata dal Qatar nella denuncia alla World Trade Organization. Secondo Dubai, dietro alla tv pirata c’è il governo saudita: è propria l’incapacità (o la mancata volontà) dei sauditi nel bloccare le trasmissioni di beoutQ (un nome, un programma) a causare lo stop nelle trattative di acquisto del Newcastle avviate nel maggio del 2020. Con buona pace di Amnesty International e di tutte le associazioni che si occupano di diritti umani, da tempo in prima fila nel denunciare gli abusi del regime saudita. Gli unici diritti che contano sono quelli commerciali (“la Premier League dovrebbe cambiare i test su proprietari e dirigenti per affrontare le questioni sui diritti umani”, ha dichiarato il Ceo di Amnesty Sacha Deshmukh): è sufficiente sistemare la questione con il proprio vicino di casa e tutte le porte si aprono.

In estate il WTO ha ritenuto colpevole l’Arabia Saudita di aver violato le leggi internazionali sulla proprietà intellettuale per il caso beoutQ. Un mese dopo, la Qatar Airways ha vinto la causa per danni intentata contro i quattro stati che avevano bloccato il traffico aereo. Ma nel frattempo i rapporti si erano già distesi, specialmente quelli tra Qatar e Arabia Saudita, con la visita a inizio gennaio dell’emiro Al Thani a Riyad per il Consiglio di Cooperazione nel Golfo che ha aperto la strada alla riapertura dei confini tra gli stati. BeIN è tornata in affari con i sauditi (che compongono il bacino di utenza più grande di tutta la penisola), pertanto i sauditi sono tornati in affari con la Premier League e nel giro di poco tempo si è arrivati ai festeggiamenti per le strade di Newcastle per la fine dell’era Mike Ashley, durata 14 anni.

Non deve ingannare l’aurea di mediocrità che da tempo avvolge i Magpies, con un solo piazzamento tra le prime nove di Premier ottenuto lungo tutta la gestione Ashley (accadde nella stagione 2011/12 con Alan Pardew in panchina). Se sportivamente è stato un periodo avaro di soddisfazioni e zeppo di frustrazioni, a livello commerciale il fondatore di Sports Direct lascia una società in buona salute (fino al 2018 il Newcastle, a dispetto dei modesti risultati, era ancora nella top 20 della Football Money League stilata dalla Deloitte) e, soprattutto, si mette in tasca una cifra più che raddoppiata rispetto a quanto sborsato (150 milioni di euro) nel 2007. Termini quali austerità e braccino corto (in 12 anni il Newcastle ha speso sul mercato 77 milioni, per una media di 6 milioni a stagione) sono destinati a finire in soffitta, forse tra qualche anno al popolo del St. James’s Park non provocherà più crisi di nervi ricordare certe uscite di Ashley, come la risposta data a Rafa Benitez dopo l’ennesima richiesta di investimenti nelle infrastrutture e nel potenziamento dello staff societario, scouting in primis. “Non ho mai visto un solo giocatore”, disse, “che non abbia voluto firmare con noi a causa del nostro centro di allenamento”.

Con un patrimonio stimato in 376 miliardi di euro, vale a dire circa 13 volte più di quello dello sceicco Mansour del Manchester City e oltre 60 volte quello dell’emiro Al Thani del Psg, il fondo sovrano PIF lascia ipotizzare una pioggia di denaro in arrivo su Newcastle. Difficilmente però si assisterà a intensi restyling come quelli operati dal primo Abramovich al Chelsea o dallo stesso Mansour al City, visto che le regola del Financial Fair Play impongono ricavi adeguati all’ammontare delle spese. Impensabile pensare a un boom come quello della Manchester color sky blue, con 487 milioni spesi in tre anni per costruire una squadra stellare (Yaya Tourè, Carlos Tevez, David Silva) prima che fosse introdotto il FFP. Indubbiamente l’approccio al grande calcio dei sauditi è stato diverso rispetto a quello dei vicini di casa. Anni fa conclusero un bizzarro accordo “pay per view” con diversi club della Liga spagnola per il prestito semestrale di alcuni nazionali, con stipendio direttamente pagato dallo stato arabo. Quasi nessuno è mai sceso in campo e per il movimento calcistico saudita i benefici sono stati nulli. Sempre ammesso che, senza un Mondiale in casa alle porte, una nazionale competitiva interessi qualcosa alla monarchia. Il calcio come leva di soft power passa per altre strade. Come quelle che costeggiano il fiume Tyne.

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