Quindici anni “senza Anna” sono tanti. Sono troppi. Quindici anni fa un killer ammazzò la grande, determinata e indomita giornalista nell’androne di casa sua, in pieno centro a Mosca: era il 7 ottobre 2006, il giorno del compleanno di Putin, e la cosa a molti è parsa più che una semplice coincidenza (due giorni prima era il compleanno di Ramzan Kadyrov, il dittatore ceceno spesso e volentieri al centro delle inchieste di Anna).

La ricorrenza è spunto di riflessioni e di ricordi, e il sito di Novaja Gazeta, il bisettimanale in cui Anna lavorava, è il luogo virtuale in cui ribollono memorie e considerazioni sui tempi bui che la Russia sta vivendo, e di cui Anna Politkovskaja aveva amaramente previsto l’avvento, descrivendo l’opacità dell’ascesa al potere di Putin. Parlare di Anna oggi in Russia è come inoltrarsi in un campo minato. Lo scorso 18 luglio i siti vesti.ru e rbc.ru avevano messo in Rete degli articoli sulla scomparsa di Raissa Aleksandrovna Mazepa, la madre di Anna: aveva 92 anni. Le due testate hanno ricordato la caparbietà con la quale si era battuta per avere giustizia. Invano. Il mandante dell’assassinio non è mai stato trovato.

Nel 2014 il tribunale di Mosca aveva emanato una sentenza secondo cui gli imputati Rustam Makhmudov e Lom-Ali Gajtukaiev venivano riconosciuti colpevoli e condannati all’ergastolo. Il primo in quanto esecutore dell’omicidio; il secondo perché organizzatore del crimine. C’erano altri tre imputati: Serghei Khadzhikurbanov, Ibraghim Makhmudov e Dzhbrail Makhmudov – due dei quali agenti di polizia che hanno “coperto” i killer – sono stati accusati d’essere complici nell’organizzazione dell’agguato e dei pedinamenti, e quindi condannati rispettivamente a 20, 12 e 14 anni da scontare in una colonia penale.

Due settimane prima che Anna fosse assassinata, suo padre Stepan Mazepa, ex diplomatico di carriera al tempo dell’Urss (Anna è nata a New York nel 1958), era morto d’un colpo apoplettico mentre si trovava nella metropolitana di Mosca. Sua moglie Raissa non poté presenziare al funerale perché era stata ricoverata in ospedale dove le avevano diagnosticato il cancro. Il giorno dell’omicidio Anna doveva visitare la madre in ospedale (faceva i turni con sua sorella Elena Kudimova). Lo stesso 7 ottobre, all’uscita del supermercato vicino alla casa della madre sul lungomoscova Frunzenskaja, la Politkovskaja fu pedinata da un uomo con un cappellino da baseball in testa, e pure da una donna di cui non si sa ancora nulla.

I dettagli non consolano. Ma pongono domande. Gli inquirenti hanno preso i pesci piccoli, i mandanti sono rimasti nell’ombra. Ingiustizia è stata fatta… Dmitri Muratov, il direttore di Novaja Gazeta, ha affiancato coi suoi giornalisti gli investigatori, e in redazione, nella stanzetta in cui lavorava Anna, tutto è rimasto come il giorno in cui è uscita dal giornale. Sul tavolo c’è sempre un fiore rosso, un garofano o una rosa… ai primi di agosto, Dmitri ha invitato la gente di buona volontà a celebrare il compleanno della Politkovskaja (il 30 agosto) con flash mob o scrivendo il suo nome un po’ dappertutto, oppure eseguendo il pezzo Libertango di Astor Piazzolla che le piaceva tanto.

L’idea chiave di questo intervento di Muratov è quello di dover riconoscere che i boia che l’hanno uccisa hanno purtroppo vinto: nel quindicesimo anniversario della morte scatta infatti la prescrizione, per cui i mandanti dell’agguato possono scamparla, né possono essere riconosciuti responsabili penalmente.

Ha quindi una sua perversa logica sapere che a Mosca sui media controllati dal Cremlino, sino a ieri, sulla Politkovskaja persisteva il silenzio assoluto. Per forza. Anna incarnava il coraggio e l’indipendenza giornalistica. Ora è diventata l’emblema universale della lotta per la libertà d’opinione. Un’immagine insopportabile ed insostenibile per il Cremlino.

Raramente, anzi, rarissimamente, è capitato che qualcuno dell’opposizione riuscito ad accedere ai microfoni di Radio Mosca o di qualche superstite canale indipendente su YouTube, abbia ricordato Anna tra le pieghe delle critiche mosse al potere, denunciando il trend sull’annientamento morale (e sovente fisico, come nel caso di Anna, e prima di Jurij Scekocikhin, suo collega e deputato, come tre anni dopo è stato per Boris Nemsov, ucciso sotto le mura del Cremlino)…

Chiedersi perciò se una parola libera sia ancora possibile in Russia, è più che lecito. Le notizie che provengono sono ogni giorno sempre più inquietanti. Arresti di oppositori e di giornalisti, divieti per i media indipendenti, censura di Internet, brogli elettorali, processi pilotati, aggressioni a militanti pacifisti, emarginazione dei nuovi dissidenti. La pandemia ha reso soffocante questa cappa di piombo, non soltanto perché ha aggravato la cronica mancanza di risorse del sistema sanitario o perché le autorità hanno a lungo negato il reale impatto del Covid sulla popolazione.

Ma perché questa crisi sanitaria è stata usata come pretesto per continuare a reprimere il dissenso, con opportune modifiche, per esempio, alla legislazione sulle “notizie false” o inasprendo le restrizioni sugli incontri pubblici. Manifestanti e difensori dei diritti umani e attivisti civili e politici sono stati arrestati e perseguiti. Il diritto ad un processo equo è stato regolarmente violato. Altre modifiche legislative hanno ulteriormente ridotto l’indipendenza della magistratura.

E tuttavia, il giornalismo indipendente esiste e resiste in Russia: ma per quanto tempo ancora? Circola una battuta feroce, pessimista come ai tempi dei gulag: “Un buon giornalista è un giornalista morto”. Perché se uno è bravo ed onesto, deve raccontare la realtà, non l’impudente fiction mediatica allestita dal governo.

Anna non concedeva sconti al Potere. Era una giornalista straordinaria, brava e impietosa nelle sue inchieste sulla corruzione dei politici, sulle connivenze del Cremlino con l’illegalità, sui comportamenti violenti e disumani dell’esercito in Cecenia, sul massacro della scuola di Beslan, dove un gruppo di 32 terroristi fondamentalisti islamici sequestrò 1200 persone. Due giorni dopo le forze speciali russe fecero irruzione: fu un’ecatombe, morirono più di trecento persone, di cui 186 bambini, e pure i 32 terroristi, oltre a 700 feriti. La Politkovskaja criticò la brutale gestione della crisi, e l’incompetenza delle squadre d’intervento speciali, raccogliendo testimonianze dei sopravvissuti. Persino Putin fu costretto ad ammettere, poi, che c’era stata una certa mancanza di professionalità nel gestire la crisi e l’intervento.

Purtroppo, il coraggio giornalistico si paga caro. Eppure, c’è chi non desiste. A prezzo d’immolarsi. Come è successo giusto un anno fa. Sempre all’inizio d’ottobre. Mese infame ed infausto per i giornalisti che non si arrendono alle minacce delle autorità.

Anna avrebbe raccontato la storia della giornalista Irina Slavina, 47 anni e la sua estrema determinazione, immolandosi in nome della libertà. E dei diritti calpestati dall’arroganza e dalla corruzione del potere. L’avrebbe raccontata suscitando nei lettori indignazione e ribellione.

Spostiamoci da Mosca a Nizhny Novgorod, a metà strada fra Mosca e Kazan, sul tracciato della Transiberiana. Ha un milione e trecentomila abitanti, è la quinta città della Russia, capitale del circondario federale del Volga. E’ un grosso centro industriale (vi ha sede la fabbrica automobilistica Gaz), ha ferventi attività culturali e politiche, qui è nato Massimo Gor’kij. Qui, il primo ottobre del 2020, la polizia fa irruzione a casa di Irina Slavina, capo redattore del giornale indipendente on-line Koza Press: l’ultima delle infinite vessazioni cui è sottoposta Irina e la testata che dirige, molto seguita dai giovani e dalle élites cittadine. Gli agenti portano via quaderni di appunti, lap top, cellulari: quelli di Irina, del marito Alexei, dei figli Margarita e Vyacheslav.

Viene citata in qualità di testimone nel procedimento penale che coinvolge un attivista di Russia Aperta, movimento d’opposizione fondato dal magnate Mikhail Khodorkovskij, l’oligarca avversario di Putin finito in una galera siberiana per aver sfidato il presidente russo agli inizi della sua irresistibile ascesa al potere. Irina stessa è sospettata di farne parte: con le nuove leggi liberticide, Russia Aperta è considerata “associazione indesiderabile”, ma quel che è ancor peggio è che chi lavora per conto di associazioni non governative con legami all’estero diventa un “agente straniero”. Un nemico della patria.

Così ci si libera degli oppositori. Così si azzittiscono i media critici nei confronti del Cremlino. Così si neutralizzano i giornalisti che svelano corruzione e autoritarismo non risparmiando il Cremlino e il suo zar Putin.

Irina imbocca una strada terribile: l’unica, a suo avviso, che potrebbe richiamare l’attenzione del mondo su quanto sta accadendo in Russia. Il 2 ottobre va davanti alla sede del dipartimento regionale del ministero degli Interni. Si cosparge di benzina. E si dà fuoco.

Poco prima, aveva postato su Facebook un ultimo disperato messaggio al mondo, a noi: “Vi chiedo di considerare responsabile della mia morte la Federazione Russa”.

Sono quindici anni che Anna ci manca. Che manca ai russi. E’ un anno che Irina ci manca. E manca ai russi. Le loro storie sono un ritratto della vita e della morte al tempo di Putin. Storie che bruciano di politica, di amore, di fede nella libertà e in un mestiere troppo odiato dai potenti e dai loro complici.

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