Nonostante il dissequestro di beni e vigneti per un valore di 70 milioni di euro, deciso nel 2020 dal Riesame, la Procura della Repubblica di Trento ha chiesto il rinvio a giudizio dei vertici del gruppo vitivinicolo Mezzacorona per una compravendita che li porta a intrecciarsi con famiglie mafiose siciliane. I pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Davide Ognibene e Carmine Russo, assieme al procuratore Sandro Raimondi, chiedono di processare l’ex amministratore delegato ed ex direttore generale di Mezzacorona, Fabio Rizzoli, il presidente Luca Rigotti, nonché i siciliani Gian Luigi Caradonna di Agrigento – titolare della società Agro Invest – e Giuseppe Maragioglio di Palermo. Le accuse sono di concorso in associazione mafiosa e riciclaggio.

Tutto nasce dall’acquisto di una tenuta in Sicilia che, secondo l’accusa, avrebbe favorito esponenti di Cosa Nostra che volevano liberarsi di beni riconducibili ad attività criminali, per acquisire una grande provvista di denaro. Il capo d’accusa recita: “In concorso tra loro, al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa denominata “Cosa nostra”, (gli imputati, ndr) sostituivano 13 miliardi di lire con edifici e terreni” che sarebbero frutto di attività illecite, per impedire di accertarne la provenienza. I fatti risalgono a vent’anni fa: fu addirittura nel febbraio 2001 che avvenne una prima transazione. Ma c’è anche un filone successivo, riguardante un’operazione analoga da 20 milioni di euro, che risale alla primavera 2003. Siccome i pagamenti avvennero con assegni bancari, gli avvocati difensori Luigi Olivieri e Vittorio Manes hanno sostenuto durante l’istruttoria che il passaggio di denaro era avvenuto in modo tracciabile e quindi non poteva avere uno scopo elusivo.

Le due tenute passate di mano si trovano a Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento (255 ettari che Mezzacorona acquistò dalla società Agro Invest di Caradonna), e ad Acate, in provincia di Ragusa (621 ettari). Si tratta in totale di quasi 900 ettari di vigneti pregiati, oltre a numerosi edifici che in anni lontani erano appartenuti ai cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani che furono accusati dal pentito Tommaso Buscetta e vennero fatti arrestare da Giovanni Falcone. Il primo dei due cugini morì prima del processo, mentre Ignazio fu condannato in primo e secondo grado, ma fu poi ucciso in un agguato di mafia. Secondo gli investigatori la disponibilità di terreni sarebbe rimasta alla famiglia Salvo, attraverso i due indagati siciliani. Per questo si è acceso un faro sulle due operazioni immobiliari con il sospetto di riciclaggio. Gli investigatori sono convinti che gli acquirenti trentini sapessero che per perfezionare la vendita fosse necessario attendere l’autorizzazione dal carcere di un genero dei Salvo.

Il sequestro ottenuto dalla Procura nel 2020 si basava sui rapporti della guardia di Finanza che avevano ricostruito l’intreccio delle società. I beni risultavano intestati alla Finanziaria Immobiliare spa che, dopo la morte dei due cugini, era passata agli eredi. Questi trasferirono ad Agroinvest una serie di proprietà agricole, tra cui quelle finite sotto inchiesta a Trento. Una prima indagine, nel 2010, non portò a nulla. Dieci anni dopo ecco il maxi-sequestro, che però non aveva superato il vaglio del Riesame. I giudici avevano sollevato dubbi sull’esistenza del concorso in associazione mafiosa e riciclaggio, sostenendo che non c’è prova non tanto della riconducibilità delle proprietà ai Salvo, ma del fatto che essi le detenessero per conto dell’organizzazione mafiosa.

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