Se qualcuno volesse conoscere Felicia Bartolotta, la mamma di Peppino Impastato morta il 7 dicembre del 2004, non potrebbe far altro che leggere un libro appena uscito per “Navarra Editore”: Io, Felicia. Conversazioni con la madre di Peppino Impastato. A scriverlo sono due siciliani che non solo l’hanno incontrata e amata come tanti ma che hanno, in maniera lungimirante, scelto di “conservare” per anni le chiacchierate fatte con lei nella sua casa in Corso Umberto a Cinisi, per poi accorgersi che quelle parole non potevano tenerle nel cassetto, non potevano essere un egoistico ricordo.

Mari Albanese, maestra 42enne con le radici nelle Madonie e l’anima a Palermo, e Angelo Sicilia, papà dei pupi antimafia ma anche molto altro, sono gli autori di questo libro impreziosito dalle immagini scattate dal sapiente occhio del fotografo Pippo Albanese. Nessuno meglio di questi due scrittori ha saputo rendere presente, riportare in vita grazie all’uso della parola, quella donna che ha fatto la storia dell’antimafia ma che ha anche rappresentato la rivoluzione femminile in Sicilia. Io, Felicia, nato con la benedizione della famiglia Impastato tanto da avere la prefazione della nipote di Peppino, Luisa, ha più livelli di lettura.

Il primo. L’incontro tra generazioni. In quella casa dove Mari a 22 anni sceglie di ritornare più volte dopo aver incontrato mamma Felicia per la prima volta nel 2001, avviene uno scambio, un passaggio di testimone tra una mamma 85enne e due giovani (Angelo aveva una decina di anni in più della ragazza madonita). L’anziana donna sceglie consapevolmente di raccontarsi e non si sottrae alla richiesta di registrare le conversazioni: “Io me la sento, ma ci vorrà una giornata sana, voi tempo ne avete?”.

In quelle lunghe chiacchierate mamma Felicia trasmette a questi due ragazzi il senso della lotta contro la mafia. Lascia a Mari e Angelo la sua eredità. Un lascito che la giovane Albanese raccoglie e fa diventare vita tanto da impegnarsi in politica, nel sindacato, nel movimento antimafia e ricevere il premio “Donna siciliana dell’anno” nel 2017.

La seconda lettura. Il libro narra del faccia a faccia tra due donne che si innamorano l’una dell’altra. Abbiamo di fronte due figure che hanno sofferto, anche se in maniera diversa, ma che si ritrovano accomunate dalla rinascita. Felicia, svela a Mari perché assume il Gardenale: picchiandosi la testa dal dolore per la perdita di suo figlio, era riuscita a procurarsi due ematomi al cervello. Così fa quella ragazza che aveva rischiato di morire per un’emorragia cerebrale che la costrinse a un tempo in coma. È in questo contesto che scopriamo una donna che per quell’epoca è all’avanguardia: le viene affidato un uomo da sposare e lei si oppone.

Ma c’è un altro livello che ci propone questo originale libro: è quello linguistico. I due autori riescono a fare la fotografia di Felicia, a descriverla accompagnandoci in quella casa, mostrando la mamma di Peppino così com’era. La decisione di lasciare le espressioni siciliane nella loro originalità senza “abbellire” il linguaggio è l’operazione che rende queste pagine vere e autentiche. Lo spiega bene il linguista Vincenzo Pinello nella postfazione: “Linguistica della fonte; efficacia ed efficienza comunicativa; accessibilità al prodotto d’arte e ricezione diffusa. Sono tre le componenti che gli autori hanno dovuto tenere insieme e mettere dentro il processo creativo per la cura delle sorti del testo”.

Il risultato è un libro che presenta la storia dell’antimafia come se fossimo davanti allo schermo del cinema: la voce di Felicia ci riporta a ricordare Nino Caponnetto, Paolo Borsellino, il ruolo dei compagni di Peppino dopo la sua morte. Pagine che ogni insegnante dovrebbe leggere e far leggere ai suoi alunni per fornire loro un modello, una testimonianza viva di donna, di madre, di moglie che ha scelto di stare da una sola parte: quella, non scontata, dell’amore per la propria terra, per il proprio figlio, per chi è venuto dopo Peppino.

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