di Pietro Francesco Maria De Sarlo

Paolo Mieli a PiazzaPulita del 23 settembre, a proposito della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, ha affermato che è dal 1861 che “queste trattative si fanno a bizzeffe”. Così dicendo però ha commesso una imprecisione non da poco, perché le trattative iniziano prima della nascita dello Stato unitario, e banalizzato la Storia. Senza la pretesa di essere esaustivo cercherò di rendere più preciso il quadro accennato da Mieli richiamando alcuni fatti storici.

Nel 1858 a Torino venne arrestato Vincenzo Cibolla, esponente di spicco della banda della Cocca dedita a omicidi e grassazioni di ogni tipo. Il processo che ne seguì sembrò routine finché Cibolla non diventò un pentito e non denunciò nel 1861 come protettore e complice l’allora capo della polizia piemontese Filippo Curletti. La cosa destò grave imbarazzo nel neo Stato Unitario perché nel frattempo Curletti era diventato il capo della rete segreta delle spie di Cavour. Era a Modena, dove strinse alleanze con la malavita del luogo con cui organizzò finte rivolte seminando il terrore tra la popolazione. Nominato dittatore Farini iniziarono le epurazioni. Le carceri si riempirono ma con una ‘regalia’ a Curletti e Riccardi, genero di Farini, i neo galeotti poterono tornare a casa. In occasione del Plebiscito di annessione, vista la tiepida adesione, non si fece scrupolo di riempire le urne facendo il miracolo di avere più voti che iscritti alle liste elettorali.

Oltre a Modena andò in Sicilia a stringere rapporti con la mafia e preparare l’arrivo di Garibaldi con La Farina, e a Napoli dove strinse i rapporti con la camorra e Liborio Romano, primo ministro di Re Francesco II. Nel 1862 si chiuse il processo con l’impiccagione dei membri della banda della Cocca ma di Curletti non si seppe più nulla, a parte un suo dettagliato memoriale.

Il 6 settembre 1860 Liborio Romano convinse Francesco II a lasciare Napoli, ma non fidandosi completamente della accoglienza che i cittadini napoletani avrebbero riservato a Garibaldi chiamò il capo della camorra, Salvatore De Crescenzo, e lo nominò capo della polizia. In una notte le guardie diventano ladri e i ladri guardie. De Crescenzo fu efficace nel preparare l’accoglienza a Garibaldi e altrettanto efficace fu nell’assalire i commissariati arrestando e ammazzando chi resisteva e organizzando collette pubbliche a cui, a suon di legnate, occorreva aderire. Napoli precipitò nel caos. La Reggia, da cui Francesco II non aveva portato via neanche una tazzina da caffè, venne depredata e i fuorilegge dettarono legge, almeno fino al plebiscito dove a suon di legnate convinsero i napoletani ad aderire al nuovo Stato.

Quelli della mia generazione ricorderanno una illustrazione sui libri di storia con una popolana napoletana che alzava il tricolore sulle barricate in posa eroica. Si trattava di Marianna De Crescenzo, cugina di Salvatore, che pretese di essere iscritta alle liste elettorali e di votare al Plebiscito. Fu così la prima donna in Italia ad esercitare il diritto di voto, ed ebbe anche una lauta pensione al merito.

Nel novembre 1860 il neo ministro di polizia, Spaventa, dopo averla usata provò a sbarazzarsi della camorra, e ancora oggi ci proviamo. La storiografia ufficiale tende a nascondere e a sminuire affermando una ovvietà, ossia che la mafia e la camorra preesistevano allo Stato Unitario. In tutto il mondo, come a Napoli, ci sono e ci sono state marginalità corruttive, di scambio di informazioni, favori e impunità, tra gli organi dello Stato e la malavita. Ma mettetevi nei panni di un cittadino per bene nella Napoli di quell’epoca: quello che accadde ha minato per sempre al Sud il rapporto di fiducia tra il cittadino e lo Stato.

La verità è che con l’Unità la criminalità organizzata cambiò di status, diventò parte integrante del processo unitario e un interlocutore riconosciuto dello Stato stesso. Se non si conosce la storia, la recente sentenza pare una bizzarria, e non lo svelamento del nostro Dna.

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