La battaglia per la leadership del centrodestra è aperta. E sotto gli occhi di tutti. A dirlo sono i sondaggi che danno il partito di Giorgia Meloni in continua ascesa ai danni proprio della Lega di Salvini. A dirlo sono anche e soprattutto gli umori interni alla Lega. La segreteria di Matteo Salvini non è mai stata messa così in discussione come in questo momento. Stare al governo sta logorando il Carroccio almeno quanto stare all’opposizione sta premiando Fratelli d’Italia. E questa gara interna al centrodestra si sta combattendo con tutti i mezzi a disposizione. Il terreno di gioco in queste settimane è quello delle elezioni amministrative. Salvini sta battendo il territorio palmo a palmo, come da sua abitudine. Più parca Giorgia Meloni, che sembra scegliere con attenzione dove mostrarsi e dove no.

Nel suo tour lombardo in questi giorni di “dolori salviniani” per esempio sarà ad Arcore e anche in piazza Duomo a Milano. Ma è emblematico il caso della provincia di Varese, territorio storicamente leghista, anzi terra in cui tutto cominciò. Qui sono tre gli appuntamenti elettorali di peso. Si vota a Gallarate, Busto Arsizio e Varese. A Gallarate il candidato di centrodestra è il leghista Andrea Cassani. A Busto Arsizio il candidato è l’uscente Emanuele Antonelli (ex Forza Italia recentemente transitato in Fratelli d’Italia) e a Varese il candidato è il deputato leghista Matteo Bianchi. Sulla carta è suo il compito più arduo. Deve infatti riuscire nell’impresa di battere il sindaco uscente Davide Galimberti, capo di una coalizione di centrosinistra, per riconquistare quella che per anni è stata una roccaforte del suo partito. Se Salvini ha onorato il suo ruolo da segretario facendo tappa in tutte le città impegnate con il voto, a prescindere dall’appartenenza del candidato sindaco, Giorgia Meloni non ha fatto altrettanto. La leader di Fratelli d’Italia sabato 25 sarà infatti a Busto Arsizio per sostenere il suo candidato ma snobberà la vicina Gallarate e soprattutto non andrà a Varese, dove si gioca l’unica vera partita e dove, per la prima volta, Fratelli d’Italia schiera una sua lista. Stando a una lettura benevola, la scelta sarebbe maturata per non invadere il campo leghista, per lasciare tutto lo spazio al partito di Salvini. Ma mai come in questo caso vale il detto di andreottiana memoria: a pensar male si fa peccato, ma a spesso si indovina.

Che la Lega sia in affanno è ormai un fatto acclarato. E che la Meloni voglia in qualche modo capitalizzare questo momento sfortunato degli alleati è più che comprensibile. In casa Lega la frattura tra l’ala governista e quella populista è ormai alla luce del sole. E chi fino a ieri si mordeva la lingua, oggi non tace più. Come il governatore del Friuli Massimiliano Fedriga che ha detto chiaramente che “nella Lega non c’è posto per i No vax” dopo l’uscita dell’europarlamentare Francesca Donato, sconfessato poi da Salvini che ha sottolineato come nel suo partito ci sia spazio per tutte le posizioni.

E non è solo la questione green pass a tenere banco nel partito di Salvini. I brusii che si levano dalla base del nord sono sempre più rumorosi e il Capitano si affanna a mettere toppe nel tentativo di ricucire gli strappi e allontanare lo spettro del declino. Solo che a volte le toppe rischiano di essere peggio del buco. Lo dimostra la campagna acquisti condotta dalla Lega in Lombardia, dove ha accolto in questi giorni tre consiglieri di Forza Italia. Una mossa che non solo ha indispettito il partito di Berlusconi, ma che sta facendo molto discutere anche nel Carroccio. Partito tradizionalmente abituato a coltivare e far crescere le proprie leve all’interno, che non accetta di buon grado chi non ha una solida militanza alle spalle. Così sui social si sprecano i commenti critici: “Ora basta con queste porte aperte, essere inclusivi… abbiamo tirato dentro tanta gente che non sa nemmeno cosa sia essere leghista!”, qualcuno risponde con sarcasmo: “Perché significa ancora qualcosa?”. Qualcun altro guarda ancora più indietro: “Questi erano discorsi da fare quando sono arrivati Borghi, Bagnai, Siri e compagnia cantante… Adesso che senso ha?”.

E proprio dal mondo dei social è arrivata l’ultima sorpresa. Dopo anni di successi ha lasciato Luca Morisi, l’inventore della “Bestia” salviniana, una vera e propria macchina da guerra che ha raccattato follower e consensi solleticando la pancia degli italiani, senza troppi formalismi, trasformando il leader leghista in una vero e proprio influencer del populismo nazionalista. Un addio, arrivato formalmente per motivi personali, che lascia comunque qualche dubbio. Sul conto del guru del Salvini-pensiero in rete in questi ultimi anni non sono mancate le voci critiche all’interno del partito. Voci, anche in questo caso, sempre meno silenziose, soprattutto ora, in uno dei momenti più complicati per la storia del segretario.

Tra una Meloni che snobba Varese, un Morisi che se ne va e campagne acquisti mal digerite, le voci di dissenso interno continuano a moltiplicarsi. A complicare la faccenda anche un rinnovato orgoglio settentrionale. Un’ondata di Nordalgie sta infatti percorrendo la base storica della Lega. E la riva del fiume comincia ad essere affollata. Sono molti quelli seduti in attesa di vedere i traditori della causa settentrionale portati a valle dalla corrente.

“Il problema della Lega? Siamo al governo e non possiamo dire quello che vorremmo. Ci troviamo nella posizione di pensare su tanti temi le stesse cose che dice la Meloni. Con la differenza che lei le può dire e noi no. Così sembra che manchiamo di coerenza, è frustrante”. Non sono voci di corridoio o lamentele isolate, ma sensazioni espresse da chi nella Lega vive e lavora attivamente. La spaccatura interna tra la linea di Salvini e quella di Giancarlo Giorgetti è concreta, tangibile e assodata. In che termini e in che misura si rifletterà sulla realtà è tutto da vedere, ma sotto traccia i tessitori sono già al lavoro. Il caso che ha visto per oltre venti giorni il sottosegretario Claudio Durigon al centro del dibattito politico è la dimostrazione plastica di questa doppia linea interna. Dopo la proposta del ras di Latina di intitolare un parco al fratello del Duce (rimpiazzando i nomi di Falcone e Borsellino) sono stati in tanti, dentro la Lega, a prenderne le distanze. Dopo i mormorii minori dei tanti che hanno sempre sofferto la svolta nazionalista, è arrivata la dichiarazione dell’assessore regionale del Veneto Roberto Marcato: “Chi ha scelto la Lega animato da nostalgie fasciste ha sbagliato sponda, qui non c’è spazio per visioni totalitarie, al contrario la nostra battaglia per la libertà dei popoli e l’autonomia dei territori è in diretta continuità con la lotta di resistenza”. E, mentre Salvini continuava a difendere il sottosegretario, le parole di Giorgetti hanno fatto fare a Durigon un ulteriore passo verso le dimissioni: “Quando si hanno responsabilità di governo, occorre stare sempre attenti quando si parla…”.

Sebbene nel partito abbiano sempre convissuto molte anime diverse, è chiaro come il malcontento nei confronti della linea di Salvini sia in aumento.

E c’è chi sogna apertamente un cambio al vertice: “Se ci fossero attributi grandi e si andasse a congresso forse tante manfrine si potrebbero evitare anche solo urlando dalle sedie”. Sono i vecchi leghisti, quelli che per anni hanno montato i gazebo, raccolto firme, organizzato feste, quelli che non si sono persi una Pontida e che ancora oggi si sentono orfani di un sogno, che accettano di sostenere Salvini per inerzia più che per convinzione. Hanno digerito la perdita dell’identità, hanno accettato un leader che ha sostituito il Sole delle Alpi con il Tricolore; il Va’ pensiero con l’Inno di Mameli; Pontida con il Papeete, mandando in soffitta le tradizionali feste con la complicità del Covid. Così, in assenza dei raduni di partito, per cercare di farsi un’idea degli umori della base, bisogna ricorrere alle bacheche social. Ma non serve nemmeno scavare troppo a fondo per trovare parole di sconforto e delusione: “Per me essere leghista non era esibire tricolori, avere orgogli italiani, esaltare la Patria Italia, essere ossessionati dai komunistih, sventolare rosari e nominare madonne immacolate. Ma ero sicuramente sbagliato io. O non capivo”. E pagina dopo pagina la situazione non cambia: “Contestano il green pass e non dicono una parola sui 54 miliardi che i lombardi mandano a Roma ogni anno”. “Siamo rimasti in pochi a crederci veramente – è il commento a un post che mette in guardia dall’alleanza con Giorgia Meloni -. Dove c’è da laurà, siamo sempre i soliti. Il militante vero non è più gratificato e si sente un numero dei tanti. E come c’è una presa di posizione a livello nazionale che è discutibile, abbandonano subito la barca dicendo che questa non è la Lega per la quale hanno dato il voto e il sostegno a Salvini”. E, ancora: “Non crediamo più nelle favole. Questi cosiddetti leghisti se ne fregano dell’autonomia, a loro interessano solo le poltroncine”. Commenti di questo tenore se ne leggono a centinaia, i sentimento predominante è la sfiducia: “Prima col tricolore ci si pulivano il culo, ora ci apparecchiano la tavola, speriamo che l’abbiano lavato”. E non mancano le critiche alla gestione dell’immagine social del leader: “Tra foto di abbuffate, gattini e murales che ritraggono Salvini merda abbiamo toccato il fondo. Io preferisco premier chiunque altro, perciò non voto più Lega. Il giorno che ci sarà Lega per Zaia premier sarò il primo a tornare a votarla”.

Si tratta senza ombra di dubbio di una componente minoritaria all’interno del panorama nazionale del partito. Ma si tratta pur sempre della base storica, di quella che per più di due decenni è stata la vera linfa del movimento. Ordinata, obbediente, presente ad ogni appello.

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