di Ilaria Muggianu Scano

Vent’anni dai fatti del World Trade Center di New York e quindici dalla scomparsa della profetessa cassandrina dell’Eurabia. Oriana Fallaci muore a cinque anni esatti dalla tragedia delle Torri gemelle. Ancora una volta è testimone oculare dello svolgersi della storia.

È staffetta partigiana negli anni della Resistenza, vive a pochi passi dal centro dell’Apocalisse, quando mondo occidentale e islamico vivono la frattura definitiva, non esiste poetico kintsugi giapponese che dagli squarci di una società, quella americana, condannata a 2977 morti e seimila feriti, possa ravvisare alcuna cicatrice aurea da cui rinascere. Fallaci, favorevole all’intervento militare in Afghanistan, ha da sempre un linguaggio truce, divisivo, spesso ingeneroso, crasi del male incurabile sulla proiezione degli eventi storici sulla propria avventura umana del dolore, la malattia: l’Alieno. Così Fallaci definisce il male canceroso che divora piano i suoi polmoni.

Si definisce scrittore, non ama la sigla di giornalista, nonostante, con ogni evidenza, sia un vero e proprio milite con la sola arma dell’inchiostro. Di fatto ogni riflessione cronachistica converge in pubblicazioni editoriali destinate a divenire sistematicamente best seller in ogni parte del mondo. Il successo giornalistico arriva molto presto, innestato al percorso di studi in Medicina che abbandonerà per trasferirsi negli Stati Uniti. Negli anni americani mette a punto una vera e propria rivoluzione nel modo di condurre la professione giornalistica.

A proporre un’oleografia di maniera nella narrazione del personaggio e della persona di Oriana Fallaci si rischia di essere anacronistici, e d’altra parte si è abbastanza certi che non abbia alcun potere retroattivo, basti riflettere sul dato che l’introduzione del “culto della persona” nel giornalismo d’inchiesta fallaciano, o del narcisismo come usa dire oggi, divenne unico sistema e vero fulcro della poetica dell’Oriana, non curante di ogni componente lontana da una personale verità valutativa. La verità effettuale dei fatti, in questo fuoco si sostanzia l’utopia di Fallaci.

Scrisse e si contaminò lungo tutto il Novecento, l’obiettivo veritativo della realtà si intreccia immancabilmente, e con ogni evidenza, a percorsi tematici come il femminismo, i temi eticamente sensibili, la vita sui teatri di guerra, sovrapponendo e più che spesso fondendo la realtà a criteri di affinità storca del tutto personali. L’ara mitica della verità fallaciana ne carica la professione di un pathos in cui l’immolazione di dichiarazioni tranchant sembrano voler essere attestato di obiettività.

Liquida il punto più oscuro della voragine dantesca del fascismo con giudizi netti su intellò magmatici riportati in una lettera a Chicco Testa, pubblicata postuma da Il Riformista: “A me non pare che Gentile fosse fascista. O non più di Benedetto Croce che all’inizio leccava il culo a Mussolini, eppure passata la festa la soi-disant sinistra lo ha osannato come un grand’uomo. Un uomo probo, una mente sublime. O non più dei comunisti che, quando negli anni Trenta mio padre […] non era iscritto al PNF e faceva il “sovversivo”, sventolavan la tessera. Se Gentile meritava di morire, allora nache Benedetto Croce lo meritava. E tanti altri che sarebbero diventati numi del PCI“.

Anche la brutalità di Oriana Fallaci è una necessità storica? Cos’è mancato alla civiltà occidentale in questi quindici anni senza l’Oriana, dell’atea cristiana per antonomasia, il cui alveo emotivo rimarrà sempre la componente di sonorità che vorrà ricomporre al momento della morte? Dopo oltre cinquant’anni di vita a Manhattan decide di morire a Firenze, accanto alle sorelle. Probabilmente porsi questa domanda è un sesquipedale paralogismo su piani semantici sghembi. La forza corrosiva della prosa giornalistica di Fallaci, contro l’irenismo imbelle, non solo in ambito marziale, maschera, forse, l’inattingibilità all’otre del coraggio di una civiltà che ancora non sa fare a meno di eroi.

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