Il 13 novembre del 2015 è la data dei terribili attentati di Parigi firmati dal terrorismo islamico. La capitale francese, in quella tragica serata, ha subito gli attacchi più duri alla sala di concerti del Bataclan e presso lo Stadio Nazionale. Altri attentati sono stati sferrati contro locali della “ville lumière”. È stato l’attacco più duro nel cuore dell’Europa, già colpita e devastata a Madrid l’11 marzo 2004.

La scorsa settimana è iniziato il processo a Parigi contro Salah Abdelslam, il terrorista superstite, considerato uno degli ideatori e degli esecutori materiali di quella mattanza. Il secondo giorno d’udienza l’imputato ha chiesto la parola e si è rivolto alla Corte di Assise e al mondo invocando la grandezza di Allah e scagliandosi contro le vittime. Il terrorista ha asserito che i famigliari delle vittime non dovrebbero presenziare al processo e parlare in aula perché “le vittime in Siria e in Iraq non potranno mai parlare”. Dopo aver attaccato per questa presunta disparità di trattamento, ha assunto su di sé ogni responsabilità, scagionando gli altri coimputati.

Lo scopo di tutto questo? Contestare la legittimità della Corte e, più in generale, della giustizia occidentale. Per l’imputato probabilmente dovrebbero essere accusati dei medesimi crimini anche gli occidentali che hanno bombardato i paesi islamici per decenni dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York. Il processo di Parigi cade in un momento storico molto particolare: è di questi giorni il ritiro definitivo delle truppe militari occidentali dall’Afghanistan, il Paese è tornato in mano ai Talebani (con tutti i timori che questa transizione porta con sé) e ricorrono i vent’anni dall’attacco a New York da cui è iniziato questo conflitto definito asimmetrico dagli esperti di geopolitica.

L’insieme di queste circostanze sembrano riportare il tempo a un’epoca che pareva dimenticata. La pandemia, nel frattempo, ha infatti sconvolto il mondo ancor di più di quanto è stato capace di fare il terrorismo che ha macchiato di sangue il mondo: oltre a New York, Madrid e Parigi vanno ricordate Barcellona, Nizza, Londra, Mumbai, Manchester e tante altre città in giro per il globo. Io ho personalmente seguito il processo di Madrid per la strage della stazione di Atocha perché il presunto ideatore era stato arrestato a Milano. Il suo nome è Osman Rabei; contro di lui fu sferrata l’accusa di essere un capo di Al Qaeda in Europa e nei suoi confronti, per i fatti di Madrid, sono stati chiesti 47mila anni di carcere. Venne assolto per non aver commesso il fatto.

Rabei non ha mai contestato la legittimità dei giudizi, né quelli di Milano che lo hanno giudicato per associazione terroristica né quelli di Madrid che lo hanno imputato per strage. Ricordo ancora il giorno della prima udienza a Madrid: gli avvocati, stipati tutti assieme in un camioncino messo a disposizione dall’Ordine professionale della capitale spagnola, vennero scortato dai cingolati dell’esercito sino all’aula d’udienza che, per l’occasione, fu approntata nel palazzetto dello sport dove giocava la squadra di basket del Real Madrid. La tensione era enorme, non solo a Madrid. Tutto il mondo era collegato con la Spagna per capire cosa sarebbe successo.

Erano gli anni bui del terrorismo in Europa. Regnava il terrore e quella minaccia sembrava poter travolgere il normale andamento del processo. Oggi la stampa riferisce del processo di Parigi, ma l’emergenza sanitaria e i bollettini quotidiani sull’andamento del Covid sono divenuti i padroni dell’informazione mondiale. In questi giorni la popolazione si divide tra vaccinati e contrari alla vaccinazione e la magistratura pare rincorrere i no vax con la virulenza con cui, allora, venivano attenzionate le moschee delle capitali europee. Allora l’opinione pubblica occidentale, salvo limitati distinguo, faceva fatica a criticare le missioni di guerra in Iraq e Afghanistan, motivate dall’idea di combattere il terrorismo ed esportare la democrazia. Oggi pochissimi credono che la democrazia sia esportabile con i bombardamenti e vi sono forti dubbi sulla capacità di limitare il terrorismo invadendo i Paesi islamici.

Il ritiro dall’Afghanistan, dopo vent’anni di occupazione e combattimenti, in concomitanza con l’anniversario dell’abbattimento delle Torri Gemelle, è paragonato alla fuga degli americani da Saigon e dal Vietnam. In questa nuova realtà ciascun osservatore è pieno di dubbi sul futuro dei Paesi governati dall’Islam più radicale, ma la velocità della storia ha spazzato via i timori della gente. A quel tempo eravamo tutti terrorizzati dal prendere un aereo o un treno per paura degli attentati; oggi sogniamo di poter tornare ad accalcarci al check in degli aeroporti e riempire i vagoni dei treni senza dover utilizzare le mascherine, essere dotati di green pass e temere che chi è seduto vicino a noi possa essere un portatore asintomatico di Coronavirus.

Queste differenze di percezione sociale del pericolo vivono e si propagano anche nella giurisdizione. Vengono allora alla mente le parole dell’antropologo Émile Durkheim che ha sostenuto che il processo penale è la terapia che la società si concede per curare le ferite causate dal delitto. Ciò significa che la giustizia è un’attività umana che vive e si alimenta di storicità e che trova ragion d’essere nel trauma che la collettività vive in un determinato momento storico. Senza questa contiguità con la storia il processo diventa un fatto antistorico che vede l’aula privata del sentire generale.

Quanti sanno che a Parigi è in corso il processo per i fatti del 2015 e quanti sanno che nella prigione di Guantanamo ci sono ancora una ventina di detenuti rinchiusi senza capo d’accusa? La storia è una forza tremenda che può moltiplicare la virulenza dei fatti ma anche lasciare i fatti da soli, deprivati della loro forza.

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