Sono tanti i motivi per i quali un calciatore può rimanere scolpito nell’immaginario collettivo: una giocata spettacolare, un gol decisivo o magari una parata miracolosa se si tratta di un portiere. Quest’ultimo, però, non è il caso di Pablo Ansaldo. Certo, il “Gato” era un gran portiere, uno dei migliori mai prodotti dalla sua nazione, ma in Ecuador lo venerano paganamente ancora oggi per un’altra sua caratteristica: il coraggio ai limiti dell’incoscienza. Si, perché nessuno in Ecuador può dimenticare il giorno in cui Ansaldo ha seriamente rischiato di perdere la vita in campo, continuando a giocare dopo uno spaventoso scontro di gioco pur di non lasciare il Tri in inferiorità numerica.

Era il 15 Agosto 1965. A Guayaquil, la Perla del Pacifico, l’Ecuador si giocava con il Cile la qualificazione al mondiale inglese dell’anno successivo. Mai come quella volta, dopo il rifiuto all’invito della FIFA nel 1930, il Mondiale era stato così a portata di mano per la Tri: con una vittoria, infatti, l’Ecuador avrebbe strappato il biglietto per l’Inghilterra a spese del Cile. L’Estadio Modelo ribolliva come non mai. A farlo esplodere di gioco, intorno al quarto d’ora, ci pensò Alfonso Quijano, colonna portante della granitica “Cortina de Acero” – così come era stata soprannominata la retroguardia del Barcelona di Guayaquil dei primi anni ’60 – s’involò sulla destra e scodellò al centro per Alberto Spencer. Il capocannoniere di tutti i tempi della Copa Libertadores, già in forza al Penarol, era la stella indiscussa della Tri. Spencer era una montagna d’ebano, esuberante ed inaffondabile, ma soprattutto implacabile sotto porta: impattò di testa dal limite dell’area, ma per la forza che riuscì ad imprimere al pallone con la fronte fu come se avesse concluso con i piedi. Nonostante la distanza proibitiva per un colpo di testa, la palla gonfiò il sacco difeso dall’impotente Manuel Astorga, portando l’Ecuador in vantaggio. Mai negli ultimi trentacinque anni il Tri era stato così vicino al Mondiale.

Inevitabilmente, il Cile si lanciò in attacco alla ricerca del pareggio. Per fermare uno dei tanti assalti assalti degli andini, Pablo Ansaldo anticipò l’implacabile Carlos Campos con una spregiudicata e spericolata uscita bassa, piombandosi a valanga sui piedi del centravanti cileno. Il leggendario attaccante della U. de Chile, però, non fece in tempo a frenarsi e d’inerzia gli franò addosso. Lo scontro, inevitabile, fu terrificante, e le conseguenze drammatiche: senza possibilità di attutire in qualche modo il colpo, il ginocchio di Campos finì sul torace di Ansaldo, provocandogli la frattura di tre costole e la perforazione di un polmone. Furono istanti concitati. Sullo stadio scese un velo di rispettoso e preoccupato silenzio, mentre la partita venne temporaneamente sospesa per permettere al numero uno del Barcelona di ricevere le cure del caso. Edmundo Castillo, il medico sociale del Tri, si rese subito conto della gravità della situazione, constatando l’impossibilità dell’eroico portiere a proseguire l’incontro. Dalla panchina gli imposero di sventolare bandiera bianca, ma Ansaldo stoicamente, e forse sconsideratamente, strinse i denti e restò in campo. Stava rischiando la propria vita, ma da questo orecchio proprio non ci voleva sentire: “De aqui me sacan muerto”, urlò a gran voce, liquidando lo staff medico con una frase che non ha bisogno di traduzione.

In un’epoca in cui le sostituzioni non erano ancora contemplate dal regolamento, l’Ecuador avrebbe finito la gara in inferiorità numerica: in porta ci sarebbe coattivamente finito un giocatore di movimento, sicuramente poco avvezzo al ruolo. Il sacrificio del portiere, tuttavia, si rivelò addirittura controproducente: Campos e Prieto approfittarono di un Ansaldo a mezzo servizio per stravolgere completamente la situazione, prima che Raymondi, nel finale, raddrizzò le cose, regalando un pareggio meritato ai gialli di Fausto Montalván. Ma la partita non si esaurì col triplice fischio finale. La Tricolor si sentiva defraudata. Due gli episodi che fecero parecchio discutere: il mancato cartellino rosso all’indirizzo di Campos, “carnefice” di Ansaldo, e quello a Ruben Marcos, a cui venne consentito di maltrattare impunemente Jorge Bolaños. Le polemiche stentarono a placarsi. Il clima era teso. Alcuni scalmanati fecero irruzione nell’albergo, l’Humboldt di Malecon, dove alloggiava il fischietto brasiliano Eunapio de Queiroz, e lo aggredirono proditoriamente. Il giorno successivo il direttore di gara riuscì finalmente a lasciare il paese, ma solamente perché scortato da un nutrito cordone di sicurezza garantito dalla polizia locale.

Nel frattempo Ansaldo venne sottoposto ad un delicato ed urgente intervento chirurgico: il “Gato” , noto per avere il vezzo di parare a mani nude, scamperà alla morte (che poi sarebbe arrivata nel 2016), si riprenderà dopo una lunga convalescenza, ma sarà costretto a dire addio al calcio giocato. Convocato d’urgenza, fu il veterano Alfredo Bonnard (che poi si infortunò, costringendo la federazione a naturalizzare in fretta e furia il brasiliano Helinho) a raccogliere il testimone e a difendere i pali della Tri nell’ultima, importantissima sfida del girone, sempre con il Cile. Il 22 Agosto, però, non ci fu storia. A Santiago, trascinato dalla spinta del catino amico, il Cile si sbarazzò dell’Ecuador con un portentoso 3-1. Sarà poi lo spareggio di Lima ad assegnare l’unico biglietto disponibile per Londra. In Perù le cose prenderanno di nuovo il verso sbagliato per l’Ecuador. Ancora Sanchez e Marcos, a cui risponderà solo parzialmente nel finale Romulo Gomez – quando sarà però ormai troppo tardi – porranno fine ai sogni della Tri, catapultando la selezione cilena in Inghilterra. I rimpianti, invece, continueranno a tormentare l’Ecuador fino al 2002, quando il Bolillo Hernán Darío Gómez compirà il miracolo tanto atteso, qualificando la Sele al mondiale nippo-coreano.

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