di Enrico di Pasquale (fonte: www.lavoce.info)

L’emergenza umanitaria in Afghanistan ha riportato l’attenzione sul tema dei rifugiati. Probabilmente non si ripeterà quanto successo nel 2015 con i profughi siriani. Ma in Europa sarebbe stato utile aver attuato le riforme invocate nei momenti di crisi

La nuova emergenza

L’emergenza umanitaria in Afghanistan ha riportato al centro dell’attenzione il tema dei rifugiati, con il timore di una migrazione di massa simile a quella che nel 2015 vide oltre un milione di siriani marciare lungo la rotta balcanica, verso il cuore dell’Europa. In realtà, la situazione nel paese asiatico era preoccupante già da tempo. Nel 2020, secondo il rapporto Unhcr Global Trends 2020, l’Afghanistan era il terzo paese per numero di migranti forzati dopo Siria e Venezuela.

Oltre a 200 mila richiedenti asilo, si contavano 2,6 milioni di rifugiati, già in possesso di un titolo di protezione internazionale e accolti principalmente in Pakistan e Turchia, e 2,9 milioni di sfollati interni. Sempre secondo Unhcr, la situazione creatasi con il ritiro delle forze militari internazionali ha provocato, nei primi sette mesi del 2021, lo sfollamento interno di quasi 400 mila persone.

Le differenze tra Siria e Afghanistan

Vi sono tuttavia alcune differenze rispetto alla crisi del 2015.

Innanzitutto, la distanza geografica. Sebbene sia difficile prevedere quanti afghani lasceranno (o tenteranno di lasciare) il paese, è evidente che la pressione migratoria sarà maggiore sulle nazioni limitrofe, prima fra tutte il Pakistan. Escluse le poche migliaia di persone portate in Europa per via aerea (i cosiddetti corridoi umanitari), chi tenterà la fuga via terra dovrà affrontare un viaggio lunghissimo attraverso Iran e Turchia.

Inoltre, dal 2016 è in vigore un accordo tra Ue e Turchia per cui, in estrema sintesi, Ankara viene pagata per frenare i flussi. Anche se la Turchia chiedesse un aumento per il maggiore flusso dovuto alla nuova crisi, è difficile pensare che l’accordo salti. Dunque, il rischio che si ripeta quanto successo nel 2015 con i profughi siriani è abbastanza remoto.

Le richieste d’asilo in Europa

La situazione attuale, però, fa riflettere su alcune scelte (o mancate scelte) compiute dall’Europa negli ultimi anni. Osservando il trend delle richieste d’asilo ricevute nell’Unione europea a 27 negli ultimi dieci anni, si nota come, dopo il picco del 2015 e 2016, la situazione si sia assestata tra le 400 e le 600 mila domande l’anno nell’ultimo quadriennio (considerando che il valore del 2020 risente delle restrizioni Covid). Dal 2017 al 2020, l’80 per cento delle richieste d’asilo si è concentrato in cinque paesi (un quarto solo in Germania). L’Italia ha raggiunto il picco nel 2017 (126 mila), per poi scendere a 53 mila nel 2018, 35 mila nel 2019 e 21 mila nel 2020.

Le scelte mancate

Quindi, in un momento di relativa poca pressione sul fronte dell’asilo, sarebbe stato utile attuare quelle riforme tanto richieste nei momenti di emergenza. Riepiloghiamole:

1) il sistema comune europeo di asilo (Ceas) è il quadro legislativo stabilito a livello europeo. Ma la prassi sull’esame delle richieste e sull’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati varia profondamente da paese a paese;

2) il regolamento di Dublino. Allo stato attuale, i paesi di primo ingresso sono responsabili dell’esame delle domande e dell’accoglienza dei migranti. Questo penalizza fortemente gli stati di frontiera, specialmente quelli mediterranei. Nel 2017 il Parlamento europeo aveva approvato una proposta di riforma introducendo un meccanismo di sostegno in caso emergenza, poi bocciato dal Consiglio Ue. Le resistenze a una riforma strutturale – e quindi, in sostanza, alla redistribuzione dei migranti – vengono soprattutto da Est, con i paesi di Visegrad da sempre contrari all’accoglienza, mentre i paesi del Sud non riescono a fare fronte comune;

3) nuovo patto su migrazione e asilo. Nel settembre 2020 l’appena nominata presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen annunciava “una soluzione europea per ripristinare la fiducia tra gli stati membri e la fiducia dei cittadini nella nostra capacità, come Unione, di gestire la migrazione […] congiuntamente, con il giusto equilibrio tra solidarietà e responsabilità”. A un anno di distanza, quell’annuncio rimane una semplice dichiarazione d’intenti.

Si potrebbe addirittura pensare che la politica europea stia assecondando la volontà popolare, oggi prevalentemente contraria all’immigrazione e all’accoglienza. Ne è la prova l’ultimo bilancio europeo, che ha stanziato più risorse per il controllo delle frontiere che per le politiche di integrazione.

Proprio l’Afghanistan ha però dimostrato che la stabilità politica nelle aree di guerra è molto precaria e che basta poco per ripiombare nel caos. Oggi che sotto i riflettori c’è l’Afghanistan, si dimenticano la Libia, la Siria, l’Ucraina e molte altre situazioni in Africa e Medio Oriente. Per questo è importante pianificare la gestione ordinaria e d’emergenza, prima che quest’ultima si presenti.

Articolo Precedente

Sassoli: “Dialogo con i talebani per corridoi umanitari”. La Slovenia apre un primo fronte nell’Ue: “Non ripeteremo errori del 2015”

next
Articolo Successivo

Vaccini, von der Leyen: “Raggiunto traguardo, il 70% degli adulti dell’Ue immunizzati con due dosi”

next