Ah la Spagna, questo luna park degli imprenditori. Se la immagina e ce la racconta così Carlo Bonomi, presidente di Confindustria che dal palco del meeting di Comunione e Liberazione ha tuonato contro qualsiasi misura, anche solo ipotizzata dal governo, per tutelare società e lavoratori. In particolare la suggestione iberica prende spunto da una telefonata che sarebbe intercorsa tra Bonomi e Antonio Garamendi, presidente della Confederación Española de Organizaciones Empresariales. Parlando della bozza del decreto legge a cui lavorano il ministro del Lavoro Andrea Orlando e la viceministra dello Sviluppo economico Alessandra Todde, Bonomi ha raccontato alla platea: “Mi ha chiamato il mio omologo spagnolo, mi ha detto di ringraziare il ministro del Lavoro perché ‘se passa quella legge vengono tutti in Spagna’”.

Abbiamo chiesto alla Confindustria spagnola se questa conversazione sia effettivamente avvenuta e in quali termini. La risposta è stata cortese ma laconica: “Mi spiace ma non possiamo confermare o smentire nulla. Di solito non lo facciamo per conversazioni che il presidente può avere avuto in forma privata”. Ma che la telefonata ci sia stata o meno, il racconto di Bonomi rimane curioso. Mentre parlava di due dei provvedimenti contro le delocalizzazioni, ossia la sanzione del 2% del fatturato dell’ultimo anni e la lista nera delle aziende che se ne vanno con blocco dei finanziamenti, il governo stava già strofinando la gomma per cancellare. Il riferimento del capo degli industriali era quindi forse all’obbligo per le imprese di farsi in qualche, modesta, misura carico dei destini dei lavoratori lasciati a casa. In particolare predisponendo un piano che limiti l’impatto delle ricadute sociali di chiusure e/o spostamenti all’estero di stabilimenti e produzioni, senza piano si perdono i finanziamenti pubblici.

Ma un obbligo di questo tipo in Spagna esiste già. Le norme sui licenziamenti collettivi (dal 10% del personale in su) sono severe e inserite direttamente nello Statuto dei lavoratori spagnolo. Dove si prevede che “l’impresa che effettua un licenziamento collettivo che riguardi più di cinquanta lavoratori deve proporre ai lavoratori interessati un piano di ricollocamento esterno tramite società specializzate autorizzate. Tale piano, progettato per un periodo minimo di sei mesi, deve comprendere misure di formazione e orientamento professionale, attenzione personalizzata al lavoratore interessato e ricerca attiva del lavoro. L’obbligo non si applica alle società che hanno subito procedure concorsuali. Il costo della redazione e dell’attuazione del piano non ricadrà in nessun caso sui lavoratori”. Ma non solo, perché l’imprenditore deve anche farsi carico di una quota dei costi che gravano sul sistema previdenziale pubblico. “Le imprese che effettuano licenziamenti collettivi che comprendono lavoratori di età pari o superiore a cinquanta anni – si legge nello Statuto – devono versare un contributo economico all’erario secondo quanto stabilito dalla legge”.

E’ forse superfluo ricordare a Bonomi che la tassazione effettiva (ossia che considera anche cosa entra o non entra nella base imponibile) sui profitti di impresa in Spagna è al 23,3% contro il 21,3% italiano (che scende ancora in caso di grandi dimensioni dell’azienda). O che il governo di Pedro Sanchez ha recentemente ridimensionato le esenzioni fiscali sui dividendi distribuiti dalle società e sulle plusvalenze che i grandi gruppi incassano dalle loro partecipazioni in società controllate. O, ancora, che lo stesso governo ha avviato la sperimentazione per ridurre l’orario lavorativo a 32 ore divise in 4 giorni senza diminuirne lo stipendio.

Del resto il teorema Bonomi vacilla anche di fronte al precedente francese. Nel 2014, dopo la repentina fuga di ArcelorMittal, la Francia introduce la legge Florange per “punire” chi delocalizza causando massicce perdite di lavoro. Secondo Confindustria avremmo dovuto assistere ad una fuggi fuggi di imprese e imprenditori magari proprio verso la Spagna….o, perché no? verso l’Italia. Eppure i dati della Banca mondiale riportano per il 2015 un aumento degli investimenti diretti esteri verso la Francia di 40 miliardi di euro a fronte di un calo di 10 miliardi in Spagna e di 4 miliardi in Italia.

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