C’è una donna italiana alla guida di un gruppo di giovani donne, infermiere e ostetriche. La cosa non è scontata, specie in Afghanistan, oggi di nuovo a un bivio epocale della sua travagliata storia. Accade nel “fortino” inespugnabile della Valle del Panshir, la provincia ribelle a nord-est di Kabul che dice no alla nuova avanzata dei talebani come negli anni ’80 aveva respinto l’invasione sovietica. Rafaela Baiocchi, medico ascolano, è la responsabile dei progetti di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Emergency ad Anabah che co-gestisce insieme alla collega molisana Keren Picucci.

Il centro è un vero e proprio baluardo in un Paese dove la condizione della donna è storicamente un discrimine e un luogo unico di formazione dove si creano generazioni di nuove professioniste. La sede del Panshir, la prima aperta da Emergency in Afghanistan, ha appunto questa caratteristica: essere un ospedale al femminile. In oltre vent’anni, nel contesto di Anabah, le cose sono cambiate molto per la donna: “Ricordo al tempo della mia prima missione, nel 2007, come fosse difficile reperire infermiere e ostetriche”, dice Baiocchi a ilfattoquotidiano.it. “Oltre a limiti professionali le candidate ne avevano a livello generale, non parlavano l’inglese, addirittura non sapevano leggere l’orologio. Ottenere il via libera dalle famiglie, dai genitori o dai mariti, per fare i turni di notte era quasi impossibile e una volta fidanzate e vicine al matrimonio le perdevamo. Fare formazione non era semplice. Oggi le cose sono diametralmente opposte, al punto che riusciamo addirittura a selezionare le migliori. Le ragazze non hanno alcuna intenzione di sposarsi, vogliono trovare un lavoro, restare autonome, fare carriera insomma. Non va dimenticato che molte famiglie si reggono soltanto sul loro stipendio. E poi ci sono le pazienti, sempre più consapevoli della necessità di fare un parto in sicurezza e non di rischiare la vita in casa”.

Un risultato ottenuto nel tempo con grande pazienza e che ora rischia di essere reso vano dal nuovo governo dell’Emirato Islamico di Afghanistan: “Tutte le mie collaboratrici si stanno chiedendo cosa sarà di loro, cosa accadrà di qui a breve”, spiega la dottoressa di Emergency. “Al momento c’è un livello di rassicurazione alto perché l’arrivo dei talebani è stato più morbido del passato, ma la tensione serpeggia tra loro, la vivi, la senti. Venticinque anni fa sanno tutte cosa è successo, molte erano appena nate, ma le loro madri c’erano e hanno vissuto quell’incubo. È normale, dopo un quarto di secolo di conquiste non è facile vivere in un limbo del genere col rischio di vedere vanificato tutto. C’è tensione, ripeto misurata, ma c’è”.

Il Panshir per il momento è l’unica provincia dell’Afghanistan a non essersi arresa all’avanzata talebana. La Valle dei 5 Leoni, compreso Ahmad Shah Massoud, l’eroe di origini tagike assassinato a Bazarak il 9 settembre del 2001, due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle e agli Usa. La stessa terra dove Gino Strada, nel lontano 1999, inaugurò il primo ospedale di Emergency in Afghanistan. A quel tempo il centro di chirurgia avanzata si occupava prettamente delle conseguenze della guerra. Oggi quella struttura tratta ancora feriti d’arma da fuoco e mine, ma ha allargato il campo al resto della chirurgia di elezione, soprattutto è diventata una clinica pediatrica e di neonatologia e hub per le cure di ostetricia e ginecologia.

Se a Kabul e in altri centri del Paese si osservano scene deliranti, tra paura e disperati tentativi di fuga, nel Panshir la situazione, per ora, è tranquilla: “Tutto attorno la provincia ci sono tafferugli e alcuni feriti sono stati portati qui da noi”, spiega la dottoressa. “Detto questo, è come se noi vivessimo in una sorta di campana di vetro. Nulla di grave è accaduto negli ultimi giorni, nessuno è venuto a darci indicazioni. Quotidianamente il nostro servizio navetta trasporta i dipendenti da Kabul all’ospedale, e viceversa, senza incontrare ostacoli. I check-point ci sono sempre stati, prima erano gestiti dalla polizia e dall’esercito afghani, adesso dai talebani, ma a nessuno è stato impedito di passare. E soprattutto a nessuna dipendente (il personale della pediatria è tutto femminile, ndr.) è stato posto l’obbligo di indossare il Burqa. La percezione che tutto possa cambiare in peggio c’è, di fatto la vita in ospedale e nel Panshir va avanti normale. L’unica differenza è un lieve e fisiologico calo degli ingressi di pazienti, soprattutto da Kabul, a causa della limitazione degli spostamenti in questa fase”. Un calo che preoccupa lo staff: se le donne, anche se hanno bisogno dell’ospedale, restano a casa il più a lungo possibile, diventa sempre più difficile salvarle e salvare i loro bambini.

La struttura di Anabah effettua 7mila parti l’anno, numeri elevatissimi: nel 2007 se ne facevano 1.000 e nel 2016 4mila. Oltre alle due dottoresse italiane, Emergency ad Anabah, seguendo da sempre la sua politica di affidamento delle strutture al personale sanitario locale, impiega 11 medici del posto oltre a infermiere, ostetriche e personale vario. Per ora nessuno si muove dal Panshir: “Non siamo pazzi”, precisa la dottoressa, giunta al suo 14° anno di Afghanistan, “non vogliamo restare per puro spirito di eroismo, ma fino a quando la situazione resta in questi termini non sussiste alcun motivo per abbandonare la struttura. Emergency è un’organizzazione neutrale e così si è sempre comportata, in Panshir, in Afghanistan, nel mondo. Del resto nel 2000 quando gli altri scappavano Gino (Strada, ndr.) è voluto entrare a Kabul per aprire un altro ospedale”. Ma c’è una mancanza di personale internazionale? “Siamo pochi perché il personale locale è ben formato, altamente professionale e dunque in grado di sostenere il peso di una gestione così delicata”. Ostetriche e infermiere afghane sono state formate per portare avanti l’ospedale di Anabah. E così vogliono continuare a fare.

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