A seguire i commenti di questi giorni si ha la sensazione che per l’Afghanistan l’alternativa sia tra eserciti stranieri e gruppi di minorati mentali (non per questo privi di capacità politica) fissati con quella famosa unica interpretazione, adattabile alla bisogna, di leggi eterne rivelate da Dio. La popolazione afghana, fatto salvo quella innamorata degli uni o gli altri, sarebbe incastonata nel mezzo, disgregata e priva di organizzazione autonoma. Può esserci del vero, ma può anche essere effetto della nostra ignoranza.

Cinque anni fa mi trovavo a Manbij, una città siriana. Veniva liberata dall’Isis a opera di donne e uomini del luogo, uniti sotto le bandiere multi-religiose e multietniche, autonome e indigene, delle Forze siriane democratiche. Pochi minuti prima di lasciare la città incrociai una ragazza nordeuropea che combatteva con le unità femminili curde. Mi disse che, lasciata la Siria, intendeva partire alla volta dell’Afghanistan: voleva collaborare con altre donne con cui era in contatto in quel paese.

Fece il nome di un movimento: Rawa, associazione rivoluzionaria delle donne afghane. Mi colpì perché ricordai di quando, nel 2001, la compianta attivista milanese Cristina Cattafesta si spendeva in Italia per far conoscere questo movimento femminile, fondato nel 1977 a Kabul dalla studentessa universitaria ventunenne, Meena Keshwar Kamal.

Negli anni Ottanta, Rawa si batteva tanto contro i jihadisti e i capi tribali sostenuti dagli Stati Uniti, quanto contro il governo comunista accusato di riforme timide e di aver svenduto la nazione all’invasione sovietica. Per questo Meena fu assassinata nel 1988, ma Rawa ha continuato nei decenni le sue attività politiche in patria e quelle umanitarie tra gli sfollati del Pakistan, dove ha stabilito le “Scuole Watan”: in esse le militanti insegnano un rinnovato concetto di nazione dove il ruolo sociale e politico delle donne è messo al centro.

Le donne di Rawa affrontano da decenni la tortura e la morte pur di organizzare in segreto assemblee e seminari autonomi tra donne, sognando il giorno in cui questo porterà a una rivoluzione femminile ed egualitaria nel paese. Pochi giorni fa Mariyam, una loro portavoce, ha risposto senza scomporsi in un’intervista che, dopo il ritorno dei talebani, torneranno in clandestinità per lottare contro il nuovo “emirato”. Negli ultimi vent’anni formalmente potevano agire liberamente, ma in realtà tra mille difficoltà per le minacce talebane, dell’Isis o di Al-Qaeda – o semplicemente di genitori e mariti cui davano fastidio.

Anche se potrà stupire, Rawa si è sempre opposta all’occupazione statunitense così come si era opposta a quella sovietica. Nel 2001 l’esercito americano scaricò senza permesso dal loro sito delle foto e le affisse nelle città che conquistava durante l’avanzata, ma l’organizzazione denunciò pubblicamente questo gesto come una strumentalizzazione e aggiunse che l’invasione occidentale non avrebbe risolto i problemi del paese, ma li avrebbe anzi peggiorati.

La voce di Rawa, diffusa in Italia grazie alle attiviste del Coordinamento italiano per il sostegno alle donne afghane (Cisda), è stata una fonte di importante critica verso la presenza nei governi di Amid Karzai e Ashraf Ghani, sostenuti dalla Nato, di molti di quei leader tribali e religiosi oscurantisti (pur estranei al gruppo dei Talebani) contro cui il movimento si batte da decenni. Le donne del movimento hanno anche fatto notare come l’applicazione dei diritti all’istruzione e al lavoro per le donne riconosciuti formalmente in questi anni spesso sia rimasta sulla carta: come cambiare i comportamenti concreti delle persone se chi governa continua a lanciare messaggi misogini e tradizionalisti alla popolazione?

Potremmo dire, con la sufficienza saccente che solleva dalle responsabilità, che in quel contesto queste militanti esagerano, sono estremiste o che la loro analisi è irrealistica. Eppure, gli eventi di questi giorni danno loro ragione: i cambiamenti imposti dall’alto non funzionano, soprattutto se si mettono al comando le stesse idee sotto cappelli diversi. In ogni caso, se fossimo davvero così esperti di Afghanistan dopo decenni di retorica sulle donne di quel paese, almeno di Rawa, in Italia, conosceremmo l’esistenza; invece è costume a Occidente, più ancora che a Oriente, sostituire fotografie ossessive a una molto più variegata realtà.

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Afghanistan, l’ong Cospe: “I nostri attivisti sono molto esposti. Cerchiamo di evacuarli, ma è una roulette russa”

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