“Ma perché tutte le volte che passi da Piazza Farnese fai una foto all’Ambasciata di Francia?” mi prendono in giro gli amici. “Tutte le volte” è decisamente un’esagerazione, visto che ci passo decine di volte al giorno, da più decenni. Decisa a dire a tutti e in qualsiasi momento che “Piazza Farnese è la piazza più bella di Roma, più originale di Piazza Navona, meno facile e adatta a tutti di Campo de’ Fiori”. Questa granitica certezza si incrina un po’ ogni tanto, magari quando vedo le macchine lasciate accanto alle fontane, ma non fa niente. Dettagli. Di certo, fa parte di quei luoghi di confine dove l’immagine si sovrappone ai ricordi, agli stati d’animo. Luoghi senza tempo, senza spazio, senza vera realtà autonoma.

Piazza Farnese rappresenta una specie di “entità” fin dall’arrivo a Roma, quando cercavo di compensare con il suo fascino la vista già diventata mitica e inarrivabile di Capri dalla finestra della mia casa di Napoli. O da quando guardavo da sotto – tipo Audrey Hepburn in Sabrina – i soffitti affrescati, con mio padre che diceva “Ci entrerai da giornalista” (è effettivamente andata così). Fino alle passeggiate spiritate intorno alle fontane, durante il lockdown, la luce incredibile di un paesaggio sempre più surreale.

E poi, ecco la sorpresa: quella sorta di murale apparso sulla facciata, che ho visto spuntare una mattina. Mi pareva un drago, che piano piano inghiottiva l’edificio anche troppo noto, fino a trasfigurarlo. Eppure no, non lo è: l’opera dello street art francese JR mima un’enorme crepa sul muro, che consente di ammirare la riproduzione del vestibolo a tre navate con le volte a botte, le colonne di ordine dorico e la grande statua di Ercole Farnese. Mica male, in effetti: finalmente l’interno di quel Palazzo è un po’ a disposizione anche di chi ci abita e ci lavora, nei dintorni della piazza. Volendo, è una scelta democratica per uno spazio da sempre vicino, ma pure irraggiungibile.

Attrazione fatale per me: ci vado, ci passo, ci ripasso. Controllo l’impalcatura, osservo la camionetta della polizia che da sempre staziona lì davanti, per vedere che effetto fa il contrasto tra la mimetica e il grigio dell’opera, studio la luce, di mattina, al tramonto, di notte. Scruto le reazioni dei passanti. Non c’è uno che non si fermi. “Questo è Palazzo Farnese”, si dicono i turisti tra di loro. I romani si danno gomitate, si esercitano nelle foto, a piccoli gruppi. In fondo diventano un’installazione pure loro, gli spettatori.

Poi questo strano, inaspettato work in progress mi fa cortocircuito. Mi pare la metafora migliore della Roma in agosto: tempo sospeso, come quello delle vacanze scolastiche. Eterno, torrido, sempre uguale ma sempre diverso, pieno di incontri casuali, di possibilità che si stagliano di fronte a te senza essere cercate, di progetti disinvolti, che si fanno senza l’ansia di realizzarli.

Mi guardo intorno, per le strade del centro, di notte, mentre echeggiano lingue straniere, quasi dimenticate per un anno e passa. Un lampo della memoria illumina un dato: non è più così scontato.

Di certo senza un po’ d’immaginazione, i vicoli – spesso senza luce, con l’asfalto infuocato che ti insegue, mentre inciampi su qualche gruppetto di ragazzi che hanno bevuto troppo – assomigliano a un girone infernale. Ma in fondo, è solo questione di interpretazione. Il murale sulla facciata docet.

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