Il taxi avanza lentamente lungo le strade di Kiev. Seconda. Frizione. Prima. Freno. Stop. E poi al contrario. Con il piede che pigia flebilmente sul gas e la vettura uscita dalle fabbriche sovietiche che inizia a sferragliare nel traffico cittadino. Va avanti così per tutto il giorno. Per tutti i giorni. Mattina e sera. Sotto il sole caldo dell’estate o attraverso l’inverno così gelido da spaccare le labbra. Ogni volta che l’autista accosta vicino al marciapiede accoglie un nuovo cliente con lo stesso sguardo furtivo e sfuggente. Spera di non essere riconosciuto. Spera che quell’estraneo non pronunci il suo nome. Perché a volte il buio dell’oblio può essere più accogliente dello splendore della fama. Boris Onischenko se n’è accorto in un pomeriggio di luglio del 1976. Doveva essere il giorno della sua beatificazione. E invece è stato quello della sua dannazione eterna.

Per anni quel maggiore dell’Armata Rossa aveva regalato gloria alla Madre Russia. Non sui campi di battaglia, ma sui tracciati irregolari del pentathlon moderno. Le Olimpiadi come terra di conquista. Argento a Città del Messico ‘68. Oro e argento a Monaco nel ‘72. E poi ancora cinque titoli mondiali e una lunga serie di tornei minori messi in bacheca. Un’infinità di ragazzini scandivano il suo nome, molti cercavano la sua figurina, qualcuno sognava addirittura di essere come lui. Quando arriva ai Giochi di Montreal 1976 sente lo sguardo dei suoi colleghi fisso su di sé. Avverte il loro timore, soppesa la loro riverenza.

Nella prima giornata dedicata al pentathlon gli atleti si affrontano nell’equitazione. Poi sono chiamati a salire sulla pedana della scherma. L’Unione Sovietica affronta la Gran Bretagna. E Boris inizia a fare ciò che gli riesce meglio: eliminare gli avversari. Il primo è Adrian Parker. La spada di Onischenko tocca il braccio armato dell’avversario. Immediatamente sul banco del giudice unico, l’italiano Guido Malacarne, si accende la luce. Significa che il colpo è andato a segno. E visto che nel pentathlon basta un assalto per vincere, Parker è già stato eliminato. L’atleta britannico si avvicina all’arbitro. È così pacato che non sembra neanche protestare. Giura di non aver sentito la spada dell’avversario sfiorargli il braccio, che la circostanza è piuttosto strana.

Malacarne ha 53 anni. È un trentino trapiantato a Milano che commercia all’ingrosso legnami. Ma è anche un tipo piuttosto risoluto. Risponde che può capitare di non accorgersi di essere stati colpiti. E che comunque la luce si è accesa. Quindi la gara finisce lì. Parker annuisce e si congeda. “D’accordo presidente – dice – ma le assicuro che non sono stato toccato”. L’inglese sembra sincero. Così Malacarne decide di andare a fondo alla questione. Chiama Onischenko e gli chiede di consegnarli la spada. Poi la controlla. I fili sono visibili sotto la coccia. Tutto è a posto. La vittoria spetta al sovietico. Parker si rassegna, si inchina al giudice, se ne va.

Dopo qualche minuto si torna in pedana. Stavolta Onischenko se la vede con Jeremy Fox. Il sovietico prova subito l’affondo, la lampadina si accende sul banco del giudice di gara. Solo che stavolta l’errore è visibile anche a occhio nudo. Perché Fox è riuscito a spostarsi all’ultimo secondo. E la spada dell’avversario sembra essersi fermata a qualche centimetro di distanza dall’avversario. Malacarne ferma tutto un’altra volta. Boris si finge frastornato. Indossa una faccia neutra, a metà strada fra lo stupito e l’infastidito. Dice che anche secondo lui qualcosa non funziona, che qualche cortocircuito sta rovinando la gara. L’arbitro gli chiede di consegnare la spada. Prima in francese. Poi addirittura in russo. Onischenko fa finta di niente e torna nel suo angolo. Due compagni lo aiutano a staccarsi dalla presa elettrica. E poi appoggiano la sua spada insieme alle altre. Malacarne è al limite della sopportazione. Prende l’arma sospetta e la porta al “laboratorio tecnico” per farla esaminare. La valutazione è piuttosto frettolosa. Mette a referto una piccola incrinatura che potrebbe generare un cortocircuito nell’impianto elettrico. Ecco spiegata la segnalazione della stoccata vincente. Malacarne non può provare il dolo, così assegna una penalità a Onischenko per materiale non conforme.

È qui che entra in scena Charles Debeur, il presidente della commissione. Ha 70 anni e ha fatto della lotta ai bari la sua stella cometa. Il belga ordina il “controllo distruttivo”. La spada di Boris viene sezionata. E il trucco viene scoperto subito. Sotto la scocca c’è un piccolo interruttore. Basta premerlo per far accendere la lampadina. La carriera di Onischenko finisce lì. Da grande campione internazionale a ladro di polli. In poco più di quindici minuti. Ma il peggio deve ancora venire. Qualche settimana più tardi Boris riceva una comunicazione. Il segretario generale del Partito Comunista Leonid Breznev vuole parlargli. Onischenko sa già che non saranno buone notizie. E ha ragione. La gloria che Boris aveva regalato alla Madre Russia era posticcia. La narrazione che aveva costruito era una bugia. Perché c’è solo una cosa peggiore della vittoria ottenuta con l’inganno: la sua scoperta. Onischenko viene congedato dall’Armata Rossa e viene multato. I suoi titoli sportivi sono cancellati. La sua vita viene inghiottita dalla damnatio memoriae. Il buio diventa amico, l’anonimato un rifugio sicuro. L’ex maggiore torna a Kiev. Guida un taxi, fa il bagnino in una piscina comunale. Boris è un freak, un personaggio ai margini, una vita racchiusa in quel verso di Cesare Pavese: “Non c’è cosa più amara dell’alba di un giorno in cui nulla accadrà“.

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