I numeri potranno anche essere considerati bassi ma la percentuale è impressionante: secondo un rapporto congiunto dell’Istituto bahrainita per i diritti e la democrazia (Bird) e dell’ong britannica Reprieve, a partire dalla rivolta del 2011 l’uso della pena di morte da parte delle autorità del Bahrain è aumentato del 600 per cento.

Negli ultimi 10 anni le condanne a morte pronunciate nei tribunali dello stato-isola del Golfo sono state 51; nel decennio precedente, ossia prima della rivolta contro il governo, erano state sette.

Le esecuzioni sono state sei, di cui tre – le prime dal 2011 – nel 2017 e le altre tre nel 2019.

Nell’88 per cento dei casi, le condanne a morte sono state emesse per reati di terrorismo, un concetto descritto in maniera ampia e generica dalle leggi del Bahrain, al punto che può essere applicato anche ad attività del tutto legittime e pacifiche.

Nei bracci della morte del paese si trovano 26 prigionieri, quasi la metà dei quali hanno denunciato in tribunale o attraverso i loro avvocati di essere stati torturati per fargli firmare confessioni false, spesso gli unici elementi di prova su cui i giudici si sono basati per emettere le condanne alla pena capitale.

Il rapporto di Bird e Reprieve è stato diffuso in occasione del primo anniversario della sentenza della Corte di cassazione che ha confermato le condanne a morte di Mohammed Ramadan e Hussain Moosa, le cui storie sono state raccontare in questo blog.

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In foto: il principe ereditario e premier del Bahrain Salman bin Hamad Al Khalifa

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