Quindici duri minuti di discorso che colpiscono il cuore del problema: un sistema accademico inadeguato, basato sulla “retorica dell’eccellenza“, che spesso accentua le disuguaglianze e il divario di genere. Anche e soprattutto all’interno di istituzioni, come la Scuola Normale di Pisa. Le parole di tre neodiplomate della celebre accademia, hanno lasciato il segno durante la consegna dei diplomi del 9 luglio scorso. Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, rappresentanti delle allieve e degli allievi della Classe di Lettere, hanno letto un discorso a sei mani che fotografa la realtà dal punto di vista di chi, l’università, la vive in prima persona, gli studenti.

“Dopo un confronto durato mesi se non anni vorremmo provare oggi a riassumere le contraddizioni che sentiamo quando pensiamo a dove siamo ora a come stiamo ora“, esordisce una delle ragazze, specificando che “proprio perché la Scuola ha significato così tanto per noi vorremmo oggi provare a spiegare come mai quando guardiamo noi stessi o ci guardiamo intorno ci è difficile vivere questo momento di celebrazione senza condividere con voi alcune preoccupazioni”.

“Crediamo che sia oggi necessario cominciare descrivendo il contesto lavorativo, sociale e e culturale in cui gran parte di noi è ormai inserita. Contesto che negli ultimi 13 anni è stato investito da cambiamenti profondi”, spiega ancora Virginia Magnaghi, la prima delle tre studentesse a prendere la parola. “Ci riferiamo al processo di trasformazione dell’Università in senso neoliberale, intendiamo un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi – legge ancora – Un’università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli aumentando i divari sociali e territoriali”. Una tendenza internazionale ancor più forte in Italia. E i numeri che la studentessa legge, sono chiari. Uno su tutti: l’Italia spende lo 0,3% del proprio Pil nell’istruzione terziaria, contro lo 0,7 della media europea. Per non parlare delle stabilizzazioni: “Tra il 2008 e il 2020 nelle Università Statali i ricercatori sono diminuiti del 14% e le recenti e parziali stabilizzazioni non sono altro che una goccia nell’oceano, dato che il 91% degli assegnisti di ricerca si vedrà escluso dall’Università”, spiega ancora Magnaghi. Le disuguaglianze “sono stridenti”, continua, “divario di genere, divario territoriale nord-sud e tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei”. Per questo “l’istituzione dei dipartimenti di eccellenza che in questo quadro non può che apparire odiosa e insensata”. Soprattutto se si guarda al divario tra poli considerati d’eccellenza, come la Normale, e università statali. “Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se fuori da questa cattedrale nel deserto ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto?”.

Il discorso quindi, proseguito da Valeria Spacciante, si sofferma con un focus proprio sulla Normale. “La scuola ha perseguito la deregolamentazione delle condizioni contrattuali del personale esternalizzato di mensa e biblioteca e sembra ormai aver rinunciato da anni ad una presa di posizione nel dibattito pubblico”, denuncia la giovane studentessa che punta il dito anche contro il corpo docente il cui “impegno civico” è passato in secondo piano rispetto “alla produzione scientifica”. “Questa disabitudine all’impegno che sempre di più ci viene insegnata è pericolosa”, dice ancora, denunciando dinamiche all’interno dell’Ateneo “nocive”. “Prima fra tutte la spinta alla competitività alla produttività, se l’obiettivo della scuola è abituarci quanto prima ad accettare acriticamente tale sistema, crediamo che questo sia un obiettivo perverso – specifica – La nostra selezione in base al merito e l’intreccio tra didattica e ricerca, sono due tra i principi basilari del modello Normale, nei fatti tuttavia troppo spesso questi principi si traducono nella retorica del merito e del talento come alibi per generare una competizione malsana e deresponsabilizzare il corpo docente”. Il riferimento è ai tanti loro compagni che non hanno raggiunto l’ambito diploma. Un’assenza che “pesa e che è una sconfitta per la scuola”. Ma non solo. Il peso è anche quello psicologico dettato da questo modello “dell’eccellenza”, una “stortura sistemica grave che può avere conseguenze estreme sulla salute fisica e psicologica”. Il duro monito delle studente, poi, tocca il nervo scoperto della didattica. Soprattutto in una Scuola come la Normale, che, grazie “ai finanziamenti di cui gode” potrebbe apportare diversi cambiamenti.

Tocca poi a Virginia Grossi, ultima delle tre a prendere la parola, esprimere un ultimo argomento chiave dell'”attacco al sistema” delle tre studentesse. Quello del divario di genere. “Oggi a leggere questo discorso siamo tre allieve, è un gesto semplice in reazione all’individualismo promosso dall’accademia neoliberale – dice – Ma è anche un gesto che vuole evidenziare un altro enorme problema sistemico: vorremmo che la Scuola Normale in quanto istituzione, corpo docente, comunità, prestasse più attenzione alla disparità tra uomini e donne all’accesso all’accademia universitaria“. I dati, anche in questo caso, parlano chiaro: “Borse di dottorato e assegni di ricerca sono equamente distribuiti, così non è per le cattedre di seconda fascia, ricoperte da donne nel 39% dei casi e di prima fascia nel 25% dei casi – spiega – Per la Scuola, su 13 membri del senato accademico solo 3 sono donne. E di 10 professori ordinari della classe di lettere, 9 sono uomini”. Numeri che si riflettono anche sui dati dei diplomati: su 24, solo 8 sono donne. Un divario di genere, “molto più marcato nelle Università del sud” contro il quale “non si combatte ancora abbastanza”. “Per questo motivo vi invitiamo a interrogavi quando all’ammissione vi trovate a far entrare un numero sproporzionato tra ragazzi e ragazze – prosegue – Vi chiediamo di prestare attenzione quando di fronte a voi avete una donna. Vi chiediamo di pensare due volte quando una ricercatrice è incinta, una professoressa è madre o quando un’allieva rimane ferita di fronte a un commento da voi ritenuto innocuo”. “Sappiamo che le nostre sono parole dure, ma a dare questo momento di celebrazione la giusta serietà, significa anche e soprattutto esercitare con consapevolezza lo spirito di analisi e critica che abbiamo imparato in questi anni – concludono le tre ragazze – Dopo anni di confronto è significativo che nessuno di noi si riconosca nella retorica dell’eccellenza, perché la troviamo incompatibile con la ricchezza e la fallibilità di ognuno di noi”.

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